21 gen 2009

François Bégaudeau




La classe
Einaudi, Pag 223 Euro 12,80
Non sempre si leggono libri così.
La classe, romanzetto su una scuola multietnica di Parigi, stupisce per quanto è inerte e stolido nella sua ossessiva ripetitività che si vorrebbe forse mimetica della gabbia che racconta ma di sicuro è pari alla noia che procura. Altrettanto difficile provare così cristallino fastidio per la voce narrante, qui quella di un professore sprovveduto che si merita abbondantemente l’indifferenza che gli spira intorno.
Non sembrerebbero argomenti critici questi ma reazioni primitive da lettore che impatta il testo e gli chiede contezza del suo essere: che cosa mi dici e come lo fai. Però è lo stesso professor Bégaudeau, autore del lavoro, che parlando in prima persona elimina la cogenza di un peculiare lasciapassare metodologico per il lettore (pur tralasciando la questione che si tratti di romanzo o documento sociologico - né interessa qui discutere perché il film da cui è tratto possa ispirare più benevoli commenti).
Il fatto è che, in un contesto difficile di ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo, il primo a non credere in ciò che fa è lui, il professore-narratore. Messo di fronte ad alunni il cui modo di stare in classe è in sé una domanda sul senso del fare scuola – e qualcosa di più - l’uomo reagisce come peggio non potrebbe. Non c’è logica – non c’è senso - nel suo approccio alla lezione e non c’è invenzione nel modo in cui racconta. Somministra pillole grammaticali estemporanee e altrettanto casuali nozioncine storiche buttandole a casaccio in un côté barzellettistico che non fa nemmeno ridere: – E’ arrabbiato, prof? / - Perché, ho l’aria?/ - E’ tutto rosso. / - E’ perché mi sono grattato gli occhi.
Di queste perle di presunta comicità che Einaudi sbandiera come folgoranti il libro è pieno. La voce del narratore - presentato come un rapper della scrittura! - si appiattisce sulla stessa vuotezza da dj Francesco alfabetizzato ma senza convinzione. Giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, affoga nella stessa insulsaggine che pensa di voler combattere; mai un colpo di reni, mai uno scatto d’immaginazione da opporre allo sfascio di chi non trova ragioni per stare lì. Il ribellismo scontato dei ragazzi è affrontato con punizioni aleatorie prima e scuse biascicate poi per aver alzato la voce. Il professor Bégaudeau non sa bene cosa fare “Entre les murs”, dunque mai riesce a supplire al vuoto di quel mondo (che non è diverso dal fuori: per quegli sfigati la Parigi di cui possono disporre non sarà migliore perché non hanno né i mezzi materiali per godere della sua opulenza né quelli culturali per immaginarne un’altra). Perché i ragazzi dovrebbero stare a sentire uno che non ha mai un guizzo, un’idea che sia una di bellezza, di grandezza che suggerisca loro l’ipotesi di un altrove, di una differenza?
Come letteratura, La classe semplicemente non esiste. Come documento “realistico” sulla scuola finisce con lo sciorinare le solite tristezze che si scrivono da decenni, con ambiguo compiacimento per l’allegro naufragio dell’Occidente.
Nel libro sembrano - involontariamente? - sintetizzarsi in uno spaventoso pasticcio due retoriche oggi a tragicomico confronto, ascrivibili entrambe alla paleontologia culturale: il progressismo di maniera di chi soggiace al vittimismo da fine della storia e non sa farvi fronte, e il falso ritorno all’ordine privo di contenuti dei grembiulini: reperti fossili ambedue di un mondo che andrebbe reinventato daccapo.
Michele Lupo



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