8 apr 2009

Giorgio Bona






Chiedi alle nuvole chi sono

Besa Editrice  Pag 157 ,  Euro 13,00

Un’umanità entusiasta e accorta insieme, eccitata e disincantata corre in queste pagine. Quello raccontato nel romanzo di Giorgio Bona è un mondo lontano. Non solo perché vi si narra di uomini e donne che nel teatro tele-metropolitano sembrano scomparsi ma perché è il modo stesso, stile e tono, del narratore che cifra un indubbio sentimento nostalgico, virile e apprensivo insieme, di rievocarlo ossia di farlo emergere dal passato. Così è anche della lingua, impastata nella stessa terra che racconta, “storie che devono molto ai racconti dei vecchi di famiglia”, secondo le parole dell’autore.
Bona gli ridà vita con la chiara intenzione di enucleare dai personaggi il cuore poetico del loro stare al mondo: un senso di fedeltà ai luoghi cui appartengono - la Val Susa -  anche quando se ne dipartono per terre promesse – il Venezuela – che non le mantengono, all’ethos che la sostanzia che consiste poi in una ruvida concretezza, una primaria partecipazione all’urgenza materiale del vivere. Per cui non v’è contraddizione in quella nuda crudezza di natura nell’oscillare fra un bucolico sentimento del tempo e la scabra disillusione di piccoli eroi costretti a sfangare la vita ogni giorno.
Se la storia principia per piccoli quadri lirici, scorci di paesaggio visti con la meraviglia di un ragazzino attento ma innamorato della sua terra, ancora disposto a lasciarsene stregare, ben presto assume le movenze di un western. Le peripezie si moltiplicano, le occasioni per guadagnarsi il pane s’inventano e non tutto riesce a dovere – che romanzo sarebbe se tutto andasse bene?
Ma la sgangheratezza del nonno e del padre del narratore, impegnati soprattutto in avventure di contrabbando dai risvolti comici e malinconici, non è quella dei pitocchi: ribalderia e affanno del vivere qui si congiungono sì ma suggellati in uno stigma di decoro, di dignità personale non negoziabili. Nella descrizione che ne fa l’autore tutto ciò sembra stargli molto a cuore; lo stesso uso del dialetto piemontese in funzione financo narrativa e non relegato a puro accidentale inserto, traduzione di una mentalità, di un’orchestrazione sintattica della realtà ben codificata intorno a una circoscritta ma solida compagine di intermittente saggezza, tutto questo sembra fare del suo libro soprattutto un atto d’amore per un’umanità di cui le statistiche odierne non sembrano avere contezza. La dimensione del sogno, rivendicata dall’autore a mo’ di preludio al libro, è nelle cose, nella stessa terra-personaggio, e perciò la lingua che la nomina si acclimata in un accordo elegiaco, dall’andamento fortemente emotivo, partecipato. Il che non impedisce al racconto di tradursi in vera e propria avventura fra Val Susa e il confine francese. Il contrabbando è la strada più spregiudicata, percorsa a rotta di collo - e sempre giocando al limite - da questa famiglia di sodali inquieti e un po’ spacconi; fra sparatorie e salti mortali di furgoni carichi di sigarette disperatamente decisi al grande colpo della vita - e intervallati nel montaggio dalle sequenze infelici del malriuscito viaggio del nonno in Venezuela - i fatti si susseguono a ritmo sostenuto. E si concludono dov’erano cominciate, in una terra “carica di stupore e meraviglia”. 

4 apr 2009

Daria Galateria

Mestieri di scrittori   Sellerio  






 Da Céline a Morand, da London a Hrabal, la francesista Daria Galateria colleziona ventiquattro brevi ritratti di scrittori colti in un momento – a volte la vita intera – che precede o accompagna la fatica dello scrivere per quella più prosaica del vivere, ossia nel tragicomico travaglio dello scrittore che fuori della pagina deve combattere per assicurarsi pane e companatico. Perché una costante che emerge da queste mini-biografie è il disagio degli scrittori nell’accettare l’idea di fare altro nella vita che non sia scrivere. Diciamo subito che nonostante l’interesse del tema – non so se un interesse da maniaci – il libro, forse per l’occasione da cui è nato (una serie di trasmissioni radiofoniche), non sempre brilla per verve e nel complesso si lascia leggere senza grandi entusiasmi. A volte il tono da regesto inficia il resoconto di biografie che immaginiamo piuttosto sapide - esemplare il caso del ritratto dedicato a Céline.
Ci saremmo aspettati dosi più massicce di humor nero, ingrediente che nella vita degli scrittori alle prese con difficoltà materiali non manca mai. Basti pensare ai casi di Svevo (prima impiegato in banca, poi responsabile della ditta di vernici dei suoceri), o ancor più in Kafka (una vita intera nel ramo assicurativo), nei quali è interessante la contraddizione fra l’aspirazione a un’esistenza votata interamente alla scrittura e la consapevolezza di doversi aggrappare a qualcosa, a un’occupazione materiale che li tenesse ancorati al banale regime delle preoccupazioni quotidiane, non tanto per ragioni economiche quanto per sentirsi - gli veniva facile – meno lontani da quella che potremmo definire, al netto di aggiornate considerazioni postmoderne, “la realtà”. A Svevo bastava che gli galleggiasse una frase nella mente per mandare in crisi la sua vita pratica per una settimana, per farne quell’inetto che il suo primo romanzo descrisse con l’implacabile ferocia del vero scrittore. Kafka confida al giovane amico Janouch il sospetto che “il lavoro manuale avvicina gli uomini”. Non stupisce il seguente paradossale corollario: la tensione per uno scrittore è tale che fuori della scrittura per molti di loro è meglio avvicinare la brutale fisicità del lavoro corporale piuttosto che riempirsi la testa con altre chiacchiere, idee o preoccupazioni di concetto. La testa di uno scrittore, perché dia il meglio, deve svuotarsi, lasciare campo aperto all’immaginazione, guadagnare vigore ed energia dallo sgombro che deriva dal pieno del gesto fisico. Sempre che ve ne sia stretta necessità: andare a chiedere a Jack London, costretto da un’adolescenza infame a rubare ostriche nella baia di  San Francisco, a cacciare foche nell’Artico, ad accatastare carbone in una centrale elettrica e molte altre cose ancora. La sera era distrutto e la letteratura sembrava un miraggio. Però in seguito ci lasciò alcuni racconti memorabili che non poco dovevano a quelle esperienze. Mille lavori (e vita davvero avventurosa) anche per il poeta svizzero naturalizzato francese Blaise Cendrars, prima della serie sgobba e muori (fuochista anche lui, cacciatore di balene, scaricatore nei mattatoi…) poi più consoni alla dimensione espressiva (reporter, sceneggiatore, animatore di riviste culturali). Proprio in area francese si dà il numero maggiore (fra quelli compresi nel libro) di scrittori nella cui vita si è affacciata la politica. Da Morand a Malraux alla Duras una certa urgenza ideologica, o uno smaccato interesse per il potere – elementi tutti non proprio proficui per la scrittura – sembra segnare l’intellighenzia creativa francese del secolo scorso. Cosa che non passava minimamente per la testa al grande Gadda, vessato da una madre rigidissima che lo costrinse a prendersi una laurea in ingegneria per la quale l’autore della Cognizione del dolore non aveva interesse (checché ne abbiano detto critici smaniosi di reperire sostegni tecnico-scientifici alla sua scrittura, che caso mai si nutriva di suggestioni epistemologiche, desunte dall’interesse per la filosofia, interesse non pacifico, problematico come tutto lo era nella sua vita). Per Gadda, parte della fatica insita in un mestiere, che fosse quello di  ingegnere o di giornalista, era già nel contatto coatto con i propri simili, che spesso faticava a considerare tali; lo spazio agito della polis per lui sarebbe stato un incubo. Laddove invece Ottiero Ottieri a modo suo lo indaga, quasi lo provoca andandoselo a cercare nelle nervature materiali dell’Italia industriale. Ma non fu una passeggiata, nemmeno per lui.





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