30 dic 2009

Howard Jacobson


Kalooki Nights
Cargo, Pag. 568 Euro 20,00


(apparso su http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=515)

“Ero stufo dell’etichetta di ‘maggior scrittore ebreo britannico’. Ho studiato a Cambridge, ho insegnato Dickens e Jane Austen; la mia è una famiglia di ebrei illetterati che in sinagoga non sapevano da che parte girarsi. Ho scritto storie ebraiche ma ripetendomi di continuo: ‘Ebrei, ebrei, ebrei. Perché parlate sempre di voi?’. Kalooki Nights nasce da queste contraddizioni. Non volevo cominciarlo, poi ho pensato: al diavolo, non devo giustificarmi” : così l’autore in una recente intervista.
Da quando in qua qualcuno deve giustificarsi per aver scritto un bel libro? Certo, ci piacerebbe sapere che cosa pensa uno scrittore di questo calibro dell’orribile macello in corso in Palestina, ma sforziamoci di scacciare i brutti pensieri che oggi Israele con raccapricciante facilità ti trivella in testa e restiamo sul punto. Che consiste in una prova ennesima di gran valore di quella particolare vena della letteratura ebraica in cui un narratore irretito nella propria comunità di appartenenza racconta ed esibisce in prima persona il contraddittorio rapporto con il suo mondo - qui, i ghetti di Manchester, che sembrano riprodurre pari pari le fisse le ubbie i tormenti di uno shtetl dell’Europa orientale, sempre alle prese con il traumatico macigno dell’Olocausto.
Ciò che si ama nel libro è proprio la voce, il ritorno sulla scena di un monologare che a certa narrativa è peculiare, una tragicomica maniera cui qui manca a volte un po’ di sana cattiveria essendo l’allestimento delle idiosincrasie più spesso un catalogo altrui che un campionario di vezzi in proprio.
Max Glickman, vignettista impegnato da ragazzo a scrivere un enorme fumetto dal titolo Cinquemila anni di amarezza che ripercorra la vicende del popolo ebraico (è o non è la memoria, vocazione dell’ebreo?), guarda il suo mondo con irritazione affascinata; ne partecipa schivandone le ossessioni, favorito in ciò dallo scetticismo di famiglia, un padre ateo e comunista che però quando si arrabbia parla in yiddish, e la madre tutta presa dal Kalooki (una specie di ramino). Glickman, “capace di dubitare di tutto, ebreo ma non completamente”, con una passione eccentrica per le fanciulle che hanno una dieresi nel nome, preferibilmente gentili, irride la cultura ebraica ortodossa (un certo “sionismo muscolare della mente”) ma non può farne a meno: tutto è visto dentro o in contrapposizione a quel mondo. In fondo, “un ebreo è un tormento per se stesso”. La stessa contraddizione percorre il filo rosso del romanzo, l’amicizia con Manny, prima negletto per i suoi stereotipi di cui è vittima così assurda da gasare – lui! – i propri genitori, e poi “ritrovato” dopo l’omicidio. L’ambivalenza, prima che un modo è un metodo; il portato che ne deriva è la divagazione. Scartare verso l’alterità consente di guardarsi anche con gli occhi degli altri: così si cifra in quella storia il genio di ridersi dietro (inutile ricordare che non risultano antologie di barzellette contro se stessi dentro il catto-islamismo di tutti i tempi).
Insomma, Jacosbon ha scritto un libro paradossale. Kalooki Nights fa ridere ed è un romanzo pieno di rabbia (anche queste sono parole dell’autore). Fa ridere ma pretende molto dal lettore: non ha una vera trama, la mole è per lettori atletici e un taglio di fronde gli avrebbe di sicuro giovato. Il racconto procede per quadri di poche pagine e narrazioni centrifughe che raramente si sviluppano in modo lineare, per poi tornare come torrenti carsici: il destino dei personaggi si fabbrica senza grossi colpi di scena – contano i caratteri più che la storia. L’ostinata ebreitudine del libro sta nel continuo affidarsi all’arzigogolo, al sofisma, all’umorismo sadomasochista. Una “stentorea serietà etica condotta attraverso l’ingegno e la satira”, così l’autore a proposito del suo ideale di letteratura.
Definito per corrive ragioni editoriali il Woody Allen inglese, Howard Jacobson, classe 1942, è stato paragonato anche a Philip Roth, una volta tanto non del tutto a sproposito. Se è vero che il comico è la messinscena umanamente tollerabile del tragico e nulla di meno, qui tirare in ballo il grande americano può avere un senso, laddove l’attribuzione italiana di parentele con Roth di cascanti cazzeggi chiamati romanzi dice solo dell’aria che tira da noi di questi tempi.

Michele Lupo



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