30 mar 2010

Tobias Wolff



Quell’anno a scuola
Einaudi 2005, Pag 241
Tanto per cominciare, non è una roba di tutti i giorni, specie di questi tempi, che si possa leggere un elogio dell’insegnamento, esibizioni retoriche e autoconsolatorie a parte. Invece accade con Quell’anno a scuola di Tobias Wolff, romanzo americano tradotto da Einaudi nel 2005, soprattutto l’ultimo capitolo dal titolo Professore.
Ma andiamo con ordine. Uno scrittore affermato si tuffa nella memoria della sua giovinezza, in particolare intorno all’anno 1960. All’epoca, il ragazzo è abbastanza problematico, rispetto ai suoi compagni proviene da una classe inferiore, si muove senza agio sufficiente in un ambiente fin troppo snob. E anche lui, come il Grove di Yates, ma in un contesto diverso, in un college di ben altre ambizioni, vede nella scrittura una possibilità di riscatto. Solo che qui non parliamo del giornalino scolastico, ma di vera letteratura. Difatti alla Hill School hanno deciso di invitare nientedimeno che il grande Hemingway a consegnare il premio per il miglior racconto scritto dagli studenti. Al nostro non sembra vero. Nonostante i toni molto educati e un décor nell’insieme più che compassato, la cosa lo manda così su di giri da suggerirgli uno scherzetto che sarebbe nulla rispetto alle planetarie truffe dell’odierno, bestiale capitalismo ma ci ricorda come la nostra vita si risolva infine in una storia singolare che è tutto ciò che abbiamo davvero da vivere: tessuta con il filo delle nostre irripetibili esperienze, piccole o grandissime che siano. Per il ragazzo ciò che conta è ottenere il riconoscimento che spera gli cambierà la vita, visto che gli arriverà dalle mani di uno dei grandi miti della letteratura mondiale. Orbene, la via che sceglie per raggiungere lo scopo è la più semplice e la più rischiosa. Perché invece di scriverlo il racconto, il ragazzo decide di rubare un vecchio testo altrui, con il prevedibile risultato di essere scoperto e per questo cacciato dalla scuola.
Il fatto è che niente è come sembra – ce lo ha insegnato la letteratura, appunto, prima degli altri. Nello specifico, e da un certo punto di vista, il ragazzo non ha plagiato nessuno, perché nella verità del racconto di cui si dice indebitamente titolare, nella sua onestà di scrittura ha trovato qualcosa che lo riguardava profondamente: una specie di bellezza compiuta, la giustezza di una parola che era come sepolta dentro di lui. Che ritiene perciò, e sinceramente, che fosse anche sua.
Così, il romanzo di Wolff, piano, qua e là un po’ lento, sembra la storia dell’attesa dell’evento, del concorso e dell’arrivo di Hemingway, ma la vicenda più che nell’epilogo rovinoso trova il suo interesse nel percorso che lo avvicina. E’ infatti una lunga iniziazione alla scrittura, alla scoperta del fatto che in essa si giochino destini che hanno da fare con questioni capitali: la verità, l’illusione, la menzogna. Tutto questo accade e non è cosa da poco, in una scuola, grazie fra gli altri a un insegnante che come il narratore non è un santo. Come lui ha ingannato gli altri. Come lui ha spacciato per proprio qualcosa che non è suo. Il ragazzo lo ha fatto con un racconto, lui con “qualcosa di molto più grande: (…) una vita che non gli apparteneva”. Perché il professore si era vantato di conoscerlo Hemingway, di essere suo amico. E nel momento decisivo, per uscire dall’imbarazzo non può che poco misteriosamente sparire.
Da quest’uomo veniamo a sapere che ha imparato molto dal suo mestiere. La possibilità di “essere più altruista, più attento e sincero” per esempio, ma anche che il corpo a corpo con i libri, davanti agli studenti, può risultare dannatamente vitale. Per esempio che è lì, nella scrittura, che ragazzi appassionati e insegnanti possono trovano il cuore delle cose. Che in una storia c’è sempre da imparare, per esempio che quando riusciamo a raccontare “veri esseri umani” prima o poi spunterà qualcuno che ce la farà pagare. “Le storie che devi scrivere ti faranno sempre trovare qualcuno che odia il tuo coraggio” si dice a un certo punto. “Se non succede, stai solo sfornando parole”. Considerando che anche il narratore, il romantico plagiario, dice di aver imparato da lui, una scuola del genere può essere davvero il centro del mondo. Il narratore – o lo scrittore empirico, Tobias Wolff – arriva al punto di dedicarlo proprio a loro, il libro, ai suoi insegnanti. Che poi uno scrittore possa essere un furfante, come tutti, del resto, o “Un vero bugiardo” - come recita un altro titolo dello stesso autore, dichiaratamente autobiografico - va da sé. Ma ai suoi libri, se sono buoni, ciò non toglie niente.



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