26 feb 2010

La scuola. Ancora un De Profundis.






Filippo La Porta, nell’introduzione a un volumetto di scrittori-insegnanti sulla scuola, Consiglio di Classe, uscito da poco per Ediesse, scrive che “Non si ragiona abbastanza sul conflitto che si è formato tra la scuola e la società (come si è andato configurando nell’ultimo decennio)”.
Ora, la maggioranza dei critici (lo dico in senso lato, visto che un senso proprio oggi non si vede, includendovi nominalmente recensori, promoters di ex-terze pagine e via di seguito) è ben più distratta di La Porta, al quale succede di entrare spesso nel vivo delle discussioni culturali (e non do qui giudizi di merito), di recensire libri di editori non di primo piano, insomma di essere attento. Epperò La Porta non sa che invece quello da lui sottolineato è proprio il punto noto a tutti, a tutti coloro che – ancora non burnout, secondo la gentile espressione con cui si sta liquidando un’intera categoria agli occhi del mondo – nella scuola ci lavorano con lucidità, e a tutti quelli che non vi pensano solo quando incontrano in metropolitana un vecchio amico sfigato preoccupato di non arrivare in ritardo mentre la dirigente di turno aspetta di cazziarlo al cancello.
Lo scollamento, il conflitto come giustamente lo chiama La Porta, sono talmente clamorosi che bisogna davvero essere distratti per non accorgersene – e se la cultura italiana più che distratta è spensierata, il conflitto fra scuola e società data molto più di un decennio. Personalmente, se mi è consentito un riferimento autobiografico, ho visto la macchina dell’annientamento al lavoro nella sua versione strutturale dalla fine degli anni ottanta, lavorando in alcune scuole private, dove, prima del tracollo di Tangentopoli, l’aziendalismo straccione già dettava legge – esentasse, in totale allegria fiscale com’è ovvio – e mandava a puttane qualsiasi idea di alfabetizzazione, di formazione, di educazione civile. Secondo il principio che in questo paese viene considerato naturale: tu paghi e io ti promuovo. Ho visto, negli stessi anni, sposare questo sistema anche nelle scuole cattoliche. Suore e signore timorate di dio pronte a puntare il dito contro l’alunna cui si proibiva di andare al bagno e sotto il broncio nascondeva il peccato di un’imprecazione immaginabilissima ma trattenuta a denti stretti. Ho visto le stesse suore promuovere la ragazzina al terzo magistrale nonostante non avesse fatto un tubo tutto l’anno - per puro menefreghismo e disinteresse, alimentato dalla pochezza culturale delle sue insegnanti e dalla stizza di fare solo quattro ore con il sottoscritto, imboscato e avventizio docente di italiano ivi finito per una serie non replicabile di accidenti. Il sottoscritto, lusingato dall’apprezzamento, non ne fu commosso fino al punto di votare per la sua promozione (e perciò stesso fu subito chiaro che la sua supplenza l’anno successivo non si sarebbe ripetuta). Si dava il caso infatti che la ragazza in questione fosse soltanto l’ultima di tre sorelle che un manager ancora ignaro di rimanere incastrato dentro i giri troppo stretti delle mazzette (piena Tangentopoli) aveva assicurato alle casse della madre superiora. Ho visto poco dopo – al netto di immediati interessi economici e per motivi diversi – confermata l’arrendevolezza di molti insegnanti, la faciloneria, in troppi casi l’ignoranza, il senso di disfatta e quello di colpa per non essere all’altezza di Marta de Filippi (o Maria, sarà uguale, no?)
Notavano fra gli altri alcuni anni fa Luc Boltanski  o Serge Halimi che si era verificata una perversa coincidenza fra pensiero libertario e liberismo aziendale. Oggi, professori che ancora insistono sulle povere creature che non vanno mai bocciate, secondo un pensiero antiautoritario che non ha più senso, non si rendono conto che proseguono a scuola il dettato liberista (la cui versione italiana è la peggiore in circolazione) dell’assenza di regole. Non è quello il campo di battaglia contro le truppe che si nascondono dietro la Gelmini (che è solo una mascotte) – non sono più i tempi dello Starnone d’antan: onore ai suoi vecchi libretti, ma adesso è davvero tutta un’altra storia.
Caro La Porta, mica è secondario che la scuola sia diventata una faccenda quasi solo di femmine, e non sempre delle migliori: la scuola non solo dà stipendi da fame; la scuola allo stato attuale, invece di assumere quel conflitto a schiena dritta tende a replicare il potere in forme edulcorate o rassegnate. La femminilizzazione della scuola comporta (o implica?) una sudditanza analoga a quella visibile fuori – “la Repubblica” perde la battaglia sulle Noemi e il risveglio del “dibattito” femminile che si era affacciato qua e là sembra già rientrato. Resta il vittimismo.
Se si è ancora convinti che il cambiamento passi dall’alfabetizzazione, se davvero vogliamo farcene carico per riaccendere un’idea di futuro (fateci caso, dopo anni che ci si è lamentati del contrario, adesso non possiamo nemmeno più ironizzare sulla demagogia elettorale che infilava i giovani nella bocca di qualsiasi stronzo smanioso di poltrone: i giovani sono spariti dal discorso pubblico - fine della storia), be’, smettiamola con il vittimismo - altrimenti ci saremo meritati il peggio. Se l’Italia delle persone colte, scrittori in primis (cittadini che dovrebbero fabbricare lingua prima di storie!, immaginario prima che colpi di scena!) non se ne rende conto, tutto è perduto.
Per queste ragioni, in Consiglio di Classe gli scritti più interessanti sono quelli che deviano dal linguaggio didattico-didascalico-pedagogistico. Come succede a Edoardo Albinati, per esempio, che riprende il racconto della sua esperienza in carcere del romanzo Maggio Selvaggio; è evidente che il modo in cui cerca il contatto con i detenuti studenti non può prescindere, anche se lui per pudore forse non lo direbbe, da un certo carisma. Bene, lasciando da parte il prestanome Gelmini (assunta al ruolo come si fa con le reclute della guardia di finanza – pescate in massa dai diplomifici) e con esso il massacro in atto a opera di Publitalia, Confindustria e Santa Romana Chiesa, volgiamo lo sguardo a sinistra. Non vedete nulla, d’accordo, però sappiate, non addetti ai lavori, che il suo ectoplasma in questi anni ha lavorato da perfetto collaborazionista: scelte concrete a parte, il carisma è stato guardato con sospetto, senza capire nemmeno l’essenziale, ossia che imparo solo se vengo sedotto: lì scatta l’emulazione, senza la cui spinta non c’è alcuna attività educativa. A forza di osteggiarne il principio stesso, alla fine si sono fatti sedurre dall’imbonitore per eccellenza. Un capolavoro. Inoltre, il carisma, e anche un certo senso virile (nell’accezione leopardiana) della vita, imprescindibili oggi che la scuola viene attaccata da tutte parti, non si può imparare per decreto, né ricevere con un attestato in un corso tutta fuffa tenuto dal pedagogista ammanicato con i partiti. I Vertecchi e i Maragliano, molto vicini all’area diessina ulivista insomma al Partito Dolorante, non hanno fatto meno danni di Tremonti. I tre articoli del critico de “il manifesto”, Massimo Raffaeli, sebbene scritti una decina di anni fa, sono ancora utili per chi, fuori della scuola, volesse farsene un’idea (panaziendalismo, pseudomeritocrazia in salsa berlingueriana etc). E credo lo sappia bene il paesologo Franco Arminio che nel suo raccontino conia per sé una nuova definizione: il maestro sabotatore. Arminio rifiuta sanamente i triti e ritriti clichè pedagogistici degli ultimi infami decenni. Fategli sentire il verbo “interagire” e vedete come reagisce.
Va da sé che la scuola dovrebbe mostrare ben altra forza per uscire dall’angolo in cui l’hanno cacciata. Non la si dovrebbe lasciare a Mastrocola. Poiché invece i tempi sono questi, alla Mastrocola le si riconosce persino lo status di scrittrice. Se la scuola la raccontiamo ai cani secondo me c’è qualcosa che non va. Non bastano i libretti furbi alla Cotroneo sulle frescacce raccontate ai bambini? Continuiamo a fregarcene della scuola, lettori del Paradiso, e poi ci stuferemo anche di leggerci fra noi. Di scuola si sono occupati tutti i grandi filosofi della storia. Ci sarà un motivo?
Leggete ciò che scrive l’ex maestro di strada Mario Rossi Doria. Vedete con quale disincanto e presenza (avremo mica paura di un ossimoro?) prova a ricostruire quotidianamente un filo fra scuola e mondo, ben sapendo che è una sfida bellissima solo perché impossibile. Guardatelo mentre insegue le storie dei nuovi flaneur, barbari e paradossali, letteralmente schizzati rispetto al vagabondaggio culto de Baudelaire e Benjamin. Guardate quanta vita si annida lì dentro.
Così, è certo un’esperienza importante quella di Eraldo Affinati, impegnato nella “Città dei ragazzi”, scuola multietnica romana. Ma il suo breve scritto svolge considerazioni un po’ generiche d’impianto pedagogistico sull’”originalità indissolubile” di ogni studente e la necessità di valutarlo a partire da questo: e non capisce Affinati che ciò può andare bene in quel contesto, o nelle situazioni più difficili, ma oggi in Italia con ciò si rischia di rinunciare, secondo l’imperante dogma dell’opinione, a qualsiasi standard linguistico e formativo minimo, ossia a un vocabolario di conoscenze imprescindibili. La via da lui indicata, se presa come un assoluto, fa il gioco delle mille scuole diverse che atomizzano l’insegnamento in totale discrezionalità. A quel punto, piantiamola di parlare di Costituzione, di significati condivisi. Se in ballo, fra le altre cose, v’è anche la nuova dissonanza fra il mondo repubblicano, laico, liberal-democratico dell’occidente europeo e le culture degli immigrati, non bastano formule rassicuranti. Né fuori, né dentro la scuola. Altrimenti, aboliamola, sul serio. Chi ha più mezzi per vendere la sua idea di mondo – per venderti il suo mondo, sarà il padrone. Come sempre.



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