23 apr 2010

Joshua Ferris - Non conosco il tuo nome

Neri Pozza
apparso su www.paradisodegliorchi.com
Autore del romanzo E poi siamo arrivati alla fine (Neri Pozza 2006), best seller internazionale tradotto in 24 lingue, vincitore del PEN/Hemingway Award e finalista al National Book Award, Joshua Ferris è considerato uno dei migliori scrittori americani dell’ultima generazione. 
In questo secondo libro, Non conosco il tuo nome, il titolo fa riferimento alla singolarissima, sconosciuta  malattia del protagonista.L’avvocato Tim Farnsworth infatti, qualsiasi cosa stia facendo, in qualsiasi momento, ovunque si trovi, è costretto da una misteriosa patologia che si palesa all’improvviso a mettersi in cammino – senza meta e senza motivo.  Qualcosa dentro di lui ordina alle sue gambe di mettersi in moto e andare. Nessuno sa perché, medici di vario orientamento cercano spiegazioni ognuna delle quali finisce per franare nel nulla di una ragione insondabile. 
Non si sa come chiamarla, questa malattia, nemmeno si riesce a capire se si tratti di un’affezione fisica o psicologica. In uno stato che assomiglia alla trance, Tim abbandona quello che sta facendo e inizia a camminare per ore, per giorni interi, fino a schiantarsi. La moglie lo aiuta, lo cerca, lo va a riprendere, gli sta vicino, poi a un certo punto, dopo anni di angoscia, non ce la fa più. La figlia, alle prese con i soliti problemi adolescenziali, all’inizio lo detesta, crede che il padre stia bluffando per farsi i cavoli suoi. Poi pian piano prende il posto di sua madre – forse è il personaggio più interessante del libro.
Per ovvie ragioni culturali, l’infelice protagonista spera che la sua non sia una vera malattia psichica, spera cioè di non essere semplicemente andato di testa. Ma analisi cliniche, laboratori, caschi muniti di elettrodi che monitorano l’attività cerebrale non danno risultati significativi. Problemi organici, nemmeno a parlarne. Le cose si mettono male anche sul lavoro, nell’importante studio legale newyorkese in cui Tim per anni aveva goduto di grande stima. All’inizio Tim inventa scuse più o meno clamorose per celare il suo dramma, visto che nel suo mondo, il nostro mondo occidentale, il lavoro risulta un fattore identitario irrinunciabile -  Italia a parte. Forse gli brucia più quello che il disastro familiare; ed è una questione più psicologica che economica. Il fatto è che alla fin fine non sa nemmeno lui se ciò che gli succede è un problema o una liberazione. E certo non lo sa il lettore.
In soldoni, la storia è questa. In un libro recente, Come funzionano i romanzi, il critico del “New Yorker” James Wood sostiene che l’osservazione dei dettagli è uno delle prerogative di un buon romanzo. Orbene, quello di Ferris è pieno di dettagli, vividi, efficaci, ma difficilmente mandano avanti la storia. Anche i dialoghi sono buoni, ma l’impressione generale è di un lavoro molto dilatato, e la ragione che ne sta alla base, l’alterità del protagonista rispetto al mondo dovuto all’assurda condizione cui soggiace avrebbe trovato ben altri esiti se fosse stata nelle mani di un De Lillo, autore cui lo scrittore dice di ispirarsi caldeggiando però una dizione forse più comunicativa, ma anche meno geniale. Ecco, a me sembra più che altro questo, che Ferris svolga in una maniera più leggibile ed emotiva temi e modelli  letterari giù visti - l’apologo sulla perdita di senso e la battaglia per tenere in vita la vita.
Non stupisce leggere in giro recensioni un tantino livorose che tirano in mezzo Philip Roth e sostanzialmente esclamano: Meno male che si cambia musica. A me non pare che si sia guadagnato qualcosa – il romanzo non è privo di belle pagine, anche molto dense, però altrettanto spesso si gira a vuoto, il dramma invece di inchiodarti gli occhi sul libro si disperde, come il protagonista. Abbastanza sopravvalutato, direi.

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