25 mag 2010

Parla con me ma fatte capì.



Nel giorno in cui si compie l'ennesimo massacro sociale, poiché non ho parole e anche se le avessi non direbbero nulla della rabbia che le muove, e poiché un blog come questo non può nulla contro la ferocia turpe di ciò che in queste ore si decide fra consiglio dei ministri e ciò che resta del parlamento, be', dirò un paio di cose di ordine più strettamente culturale. La prima è una considerazione, la seconda è la dimostrazione che se un blog come questo non può nulla contro Tremonti, la cricca, le banche e gli italiani di merda che non pagano le tasse, qualcosa per altri versi si può fare.
Nella deriva in corso favorita dalla frana inarrestabile del senso critico e del coraggio di distinguere fra arte e comunicazione, fra letteratura e intrattenimento, la chiacchiera demagogica di stampo midcult dovrebbe assumersi qualche responsabilità. Che non lo faccia il poseur torinese che agli esordi vent’anni fa dichiarò esplicitamente di intendere la letteratura come spettacolo, che per esso ha ridotto al piacere di una cena – vino californiano e non Barolo perché più democratico, il primo – opere come l’Iliade, privata dell’Olimpo (che è come togliere l’aldilà alla Commedia dantesca), o l’immenso Moby Dick , che lo faccia un imprenditore di se stesso insomma si capisce. Quello che va meno bene è il coro allargato dell’indotto culturale.
C’è in giro, per esempio e non da oggi, una gran voglia di lasciarsi alle spalle i mostri sacri del ‘900 – o forse il ‘900, o solo i mostri sacri, per tenersi i mostri alla portata di tutti. Si affannano i pochi fortunati che hanno la loro rubrichetta retribuita di promozione editoriale che chiamano critica a fingere entusiasmi per operine impapocchiate alla bell’e meglio che ci mostrano vie “inedite” per abbattere i monumenti, imponenti e inerti, che possiamo finalmente lasciarci alle spalle.
Se non fosse che spesso si coglie un’acredine sospetta che attraverso il revisionismo critico sui grandi nomi cerca di sdoganare quintali di mondezza appiccicandole addosso l’etichetta di letteratura – perché a quella ci si tiene, va da sé. Com’è successo con Marx dalle parti del pensiero politico, piace ai più sbarazzarsi della complessità e ubriacarsi di divertimento chic – hai visto che la Dandini e Fazio non ti invitano.
Quando sull’inserto settimanale del “Corriere della Sera” il solito noto che la Dandini ha definito “il grande critico letterario” ha sentenziato “che palle Musil, Kafka e Joyce” si è sentito un gran fico. Molte signore mie appresso a lui hanno tirato il famoso sospiro di sollievo; nello stesso tempo abbiamo assistito a una valanga di “grandi scrittori”. Non gli autori del Processo, o dell’Uomo senza qualità – bensì disinvolti nostrani narratori specializzati in serial-killer (indomiti, gli uni e gli altri) in sedicenti prese di posizione politicamente scorrette, ahimé prevedibilissime, in performance enogastronomiche vendute come romanzi
Siamo o no in democrazia? Ce l’abbiamo o no una bella trasmissione culturale “de sinistra” che c’invita – garante il buon Michele Serra -  a leggere (e definire come “straordinari”) i libri (sic) di Roberto Vecchioni e Uolter Veltroni? Vorremo marcare la differenza con i minus habentes della pescivendola padrona dell’Isola? “Parla come parla la maggioranza della gente” – ha detto un  troglodita a Busi qualche mese fa. Erano entrambi in mutande, immagino facesse caldo. Siccome Busi, che ha scritto alcune delle più belle pagine degli ultimi trent’anni, non è un eroe, non lo ha picchiato. Michele Mari pare invece di sì, pare che gli si sia parato davanti, nel suo ufficio milanese, e gli abbia mollato un ceffone, al grande critico di cui conciona la contessa Dandini.
Qualcosa per certi versi si può fare.




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