29 ago 2010

Signorini, tronisti e mignotte – ci serve Gramsci?



Utilizzare il paradigma gramsciano dell’egemonia per parlare del presente, scavare nell’immondizia che ci sommerge sino al collo e piantarla di ritenerla accidentale, come fosse roba d’altri, ma assumerla come il paesaggio terrificante che è, per realizzare che o si prova a spazzarlo via o sono cazzi non per noi che siamo già andati ma per i nostri figli che se la vedranno con la prole delle Ventura o col pesciolino boccheggiante allevato in casa Bossi.
E’ quello che prova a fare in un libro recente (L’egemonia sottoculturale – L’Italia da Gramsci al gossip, per Einaudi), Massimiliano Panarari, che riprende Gramsci per ridefinire lucidamente lo stato delle cose (sebbene con qualche indulgenza di troppo qua e là, un riguardo civettuolo per certi figuri che Berlusconi ha messo a capo del killeraggio gossipparo, quasi a testimoniare per paradosso la bontà inconclusa del concetto di egemonia).
Uno degli spunti a mio avviso più interessanti del libro, anche se qui più registrato empiricamente che analizzato nei nessi causali, e sul quale la sinistra che ancora si considera critica farebbe bene a riflettere, è la paradossale convergenza di cui già parlammo mesi fa fra certa ispirazione libertaria e “anarchiste” e la svolta destrorsa dell’ultimo quarto di secolo (en passant, smettiamola con l’ipocrisia e diciamolo: il crollo del muro di Berlino per l’Occidente è stata una vera sciagura!). Perché se molti odierni funzionari dell’ideologia egemone (per tornare alla koiné gramsciana), ossia gli staffieri dello spettacolo e dell’informazione – o in non casuale sintesi, dell’infotainment – provengono da ambienti situazionisti (Antonio Ricci, per es.), il disegno, consapevole o no, che sta alla base della loro azione, e quindi della deriva del continente occidentale (e inevitabile terremoto già in atto nelle zolle asiatiche che cominciano a sentire gli effetti dello scontro) nasce per Panarari (ma è un’opinione piuttosto diffusa) nella destra americana degli ultimi decenni e poi nelle oligarchie che si sono impadronite del pianeta con la precisa intenzione di far collassare le conquiste sociali di filiazione illuministica che sono la faccia migliore del fu Secolo Breve.
Allo scopo l’egemonia (sotto)culturale ha costruito il foucaultiano “a priori” psichico necessario al progetto: dealfabetizzando masse sterminate di deficienti, addestrando milioni di umani alla “servitù volontaria” che il grande La Boetié aveva diagnosticato come precipua patologia della specie – gli altri animali per lo più quando subiscono una costrizione cercano di ribellarvisi – attraverso il panopticum dello spettacolo. L’instrumentum regni, ossia il divertimentismo, lo spettacolo infinito (che ha soppiantato l’infinito letterario di Blanchot), l’illusione edonistica di un piacere realizzato e sempre a portata di mano, abbisognano di una strategia che mirando nei fatti a una micidiale involuzione autoritaria (parliamo dei reali rapporti di potere: ripercorrere Marx, please, e prendersi il buono che c’è) si realizza attraverso dosi così massicce di ignoranza programmatica che chi ne sta fuori – chi si affanna per salvarsi – finisce per risplendere agli occhi altrui, dei più, in tutta la sua fulgida coglionaggine. Paradosso solo apparente perché l’egemonia non ha ancora finito il suo lavoro se chi ne sta fuori non finisce con il sentirsi inadeguato, persino in colpa – altrimenti, che egemonia sarebbe?
Nella fattispecie italiana, videocrazia all’avanguardia nel mondo, quello che abbiamo visto in questi anni sul versante culturale è stato, più o meno nell’ordine: incomprensione e sottovalutazione del cataclisma, illusione di una sua perifericità, stordimento timoroso e infine, quando l’inferno aveva piallato l’orizzonte, goffo tentativo di rincorrerlo (vedi il coté politico, Bersani che dice ai suoi elettori di non snobbare Rete 4!); e non ultimo, snobismo di riporto di chi si è creduto spiritoso e con allegra disposizione d’animo si vanta della consuetudine con il pattume videocratico. Qui per pietà nomi di scrittori non ne faccio, che al Paradiso siamo stufi di dargli importanza. Basti ricordare quanti danni ha fatto il fine Angelo Guglielmi direttore di rete con il suo orrore per una tivù pedagogica, come se dovesse significare tornare a Bernabei, come se da quel lato fosse possibile solo la famiglia Angela. Il mantra dello spocchioso critico, qualcuno lo ricorderà, era: “La televisione è un linguaggio”. Uno statuto ontologico, niente di meno. E perciò indiscutibile. Stiamo qui a goderci il risultato di trent’anni di questa metafisica.
Quanto poi il giornalismo (ossia un genere ufficialmente ancora separato dallo spettacolo solo perché in questo caso il pudore assicura una maggiore efficacia) abbia contribuito a questo splendido stato di salute, il libro di Panarari lo ricorda attraverso i casi umani che portano i nomi di Vespa o Signorini, le declinazioni cabarettistiche di ”Porta a Porta” o quelle trash del gossip, ma, stante che lo spettacolo si è mangiato l’informazione  (e già che oggi ci siamo con i consigli, i più giovani che non lo conoscono farebbero bene a leggersi Guy Debord: la deriva totalitaria dello spettacolo era stata letta e prevista mezzo secolo fa) sarebbe urgente vedere dentro il buco nero della crassa ignoranza ivi fabbricata. Il servizio militare permanente prestato dai Minchiolini in difesa del padrone e dei suoi accoliti (come il futuro dottore in Scienze della Comunicazione Bossi Umberto,  leader di un partito nazistoide declinato in chiave burina e dialettale, gratificato dalla mascotte brianzola Mariastella per la sua maestria semiotica, specie il mirabile dito alzato ai giornalisti – che se lo meritano – nonostante la cinesica frenata dal coccolone di qualche anno fa), la guerra ininterrotta delle troie di regime, dicevo, si avvale di falsificazioni sistematiche, omissioni, storture logiche (chi è più in grado di capirle?), interpretazioni truffaldine passate per oggettività, zoomate sacramentali sul nulla dei Casini Capezzoni Rotondi, esercitazioni sulla moda dei cagnolini da passeggio, le vacanze di Bonolis (che non ne vuol sapere di tirare le cuoia), le ultime sulla liposuzione delle grandi labbra traboccanti e via coglionando. Il paese si de-costruisce così, azzerando quel po’ di buono che fa la scuola quando lo fa: vedi i recenti coccodrilli dedicati a Cossiga, vedi la signora Palombelli che quando difende la televisione di merda nella quale sguazza con pose da intellettualina “alla mano” osa utilizzare la nozione di nazionalpopolare fingendo di dimenticare (o forse davvero non lo sa) che nel pensatore sardo ucciso dal fascismo quella era una via per costruire un’alternativa, come usava dire, al pensiero dominante. Il nazionalpopolare avrebbe dovuto essere, nelle sue intenzioni, la lingua capace di preparare una dissidenza culturale rispetto all’egemonia capitalista (personalmente non mi ha mai convinto, ma questo è un altro discorso). La struttura eroicomica della mitologia gossippara invece allestisce l’Olimpo odierno in perfetta sintonia con l’ideologia liberista, anzi agendo come suo fattore propulsivo (se v’imbattete in qualcuno che ancora ripete la cazzata della “fine delle ideologie” fate come il maestro zen con il discepolo duro di comprendonio: dategli uno sganassone sul collo).
E si avvale dicevo anche di nuova prassi scolastica, occultata anch’essa ma non troppo, costruendosi un’egemonia attraverso l’emulazione di modelli didattici di base: al posto di Gentile teniamo la moglie di Maurizio Costanzo. I suoi ragazzi teneri e dolci e determinatissimi. Chiappe al vento perché c’è sempre il Vaticano che ci guarda e si sa, i guardoni proliferano fra i guardoni.

11 ago 2010

Su una certa Gelmini, mascotte di Tremonti

qui una trouvaille di Girolamo De Michele e Carmilla sull'osceno sedicente ministro dal quale dipendono le sorti della (pubblica?) istruzione in Italia - cioè del suo alfabeto minimo. La prosa, nel suo sforzo vieppiù frustrato di risultare persuasiva,  è commovente.

3 ago 2010

L’antiretorica di Beppe Fenoglio



Scrivevo giorni fa dei brevi saggi raccolti in italiano nel volume minimum fax Nel territorio del diavolo, una pubblicazione di qualche anno fa, della straordinaria Flannery O’Connor. Ricordavo che per lei la narrativa ha da fare con i sensi e la materia giacché essa “è un’arte basata sull’incarnazione”: personaggi in situazione, dall’azione drammatica dei quali lo scrittore tenta di approssimare il nucleo d’irripetibile individuale verità. Non spiegando e interpretando dall’esterno, ma “guardando fisso le cose”.
E’ ciò che fece Beppe Fenoglio nello splendido Una questione privata, racconto di ambiente resistenziale ma svolto al netto di qualsiasi faciloneria, il caso di dire, partigiana. Fenoglio fu combattente, ufficiale di collegamento con gli Alleati, e aveva chiaro l’altissimo senso morale e il valore politico di ciò che stava facendo (non abbiamo l’equivalente nella nostra storia precedente – e successiva meglio tacere - quanto a dignità di un popolo e partecipazione dal basso), ma sapeva altrettanto bene che la letteratura non si riduce a slogan né a esercizio di articolazione delle proprie ragioni.
Una questione privata è un racconto nel quale, nonostante l’amarezza di fondo - il partigiano Milton, badogliano che ha l’incauta idea di tornare nei luoghi in cui nacque il suo amore per la giovane torinese Fulvia, viene a conoscenza della probabile relazione fra la ragazza ed il suo amico Giorgio, anch’egli partigiano, e  nel mezzo della guerra si mette alla sua ricerca per conoscere la verità sino in fondo –, attraverso un’arte ineguagliata della descrizione palpita una fisica plasticità che ha pochi paragoni nella letteratura italiana.  Milton, immerso in un fango «giallo come zolfo, tenace come mastice», si muove in un paesaggio invaso continuamente da una nebbia spessa, che “intasava i valloni e si stendeva in lenzuola oscillanti sui fianchi marci delle colline”, poi “formava spessori concreti, una vera e propria muratura di vapori” o anche “un mare di latte, rimescolato in fondo da pale gigantesco e lentissime” – e via di questo passo, attraverso decine di pagine di straordinaria densità espressiva.
In questi casi si dice che il paesaggio è un personaggio. Io direi che queste Langhe in cui “Milton ha sempre la sensazione del cozzo e della contusione” sono la storia – quella del libro, s’intende. La dimostrazione che per chi ha occhi per vedere la natura può farsi essa stessa racconto. Ché è da un dentro fisico, da uno spazio materiale e sensoriale che noi viviamo queste nostre vite in transito. Occorre saper vedere sì, avere il senso del ritmo che aveva Fenoglio, sulla pagina, e la lucidità (è più la lucidità che il sentimentalismo terreno buono per la poesia) di riconoscere che le buone e ottime e fondamentali ragioni storiche non impediscono a un uomo di trovare in un altrove, un amore definitivo e infelice il cuore della propria esistenza, di innescare un meccanismo di fuga che non è irresponsabilità ma adesione alla verità delle cose - in letteratura, oltre le poetiche, anche quella di programma che si chiamava neorealismo. Tanto che la morte Milton va a rischiarla non per uccidere un fascista o un tedesco ma per ritrovare l’amico che chiudeva il beffardo triangolo amoroso. Del resto è questo il grande libro di Fenoglio, non Il partigiano Johnny, troppo programmatico nella sua ostinata e un po’ fredda ricerca stilistica. Laddove la scrittura di questo romanzo breve è a tratti straordinaria eppure emotivamente intensa, capace di restituire tragica evidenza alle cose, di saggiarne il sapore e di ascoltarne i rumori – corpi che pesano, sensibili. Vivi nell’inevitabile sfida a un destino tutt’altro che scontato. Uno dei libri migliori del secondo Novecento italiano

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