La battuta perfetta
Il romanzo definitivo sul modo in cui la televisione ha costruito
gli ultimi cinquant’anni di storia italiana. E’ stato letto così, il libro di
Carlo D’Amicis, racconto rapsodico di un narratore quarantenne, Canio Spinato,
cinico fan di Forza Italia e persino amico del Cumenda, uomo che la televisione
ce l’ha scritta nel sangue praticamente da piccolo, prima che il suo stesso
padre grazie al partito diventi un bigotto funzionario Rai, di quelli che la
democristiana tv pedagogica degli inizi intendevano esattamente come
intendevano la scuola pubblica (fiducia nella probità del sapere purché
servile, alfabetizzazione di massa in funzione di una convenzionale e sterile
rispettabilità sociale, onorabilità dell’ordine costituito, decoro del
comportamento e rispetto formalistico del galateo, etc).
Quando nel profondo sud lucano arriva la tv, negli stessi giorni
in cui Pasolini vi sta girando il suo Vangelo e proprio nella casa dei due Spinato, il
figlio ragazzino e fescennino ne intuisce subito non solo il portato ludico,
ma, visto col senno del poi, il suo destino di “gioiosa macchina da guerra”
pronta a fare a pezzi – ridendo e scherzando, va da sé – il concetto stesso di
realtà così come gli uomini si sono abituati a pensarlo per secoli. La
riduzione della vita a inane e ridicolo show troverà in lui infatti un
attivista entusiasta, per inclinazione naturale e precipua convinzione teorica,
in opposizione alla funerea, seriosa tristezza paterna (che grava in effetti
sul personaggio così pesantemente da rischiare l’iperbole).
Il figlio nasce insomma nel mondo giusto al momento giusto,
adattissimo al futuro che verrà e che quelli come lui contribuiscono a
modellare: è nato per piacere, lui, e ci riesce benissimo. Sa come far ridere e
ne fa uno scopo nella vita – l’unico. Il suo berlusconismo precede la
famigerata “discesa in campo”, l’amicizia con l’eponima farsa tragica che la
segna, inevitabile. Né stupisce che chiamerà Silvio suo figlio; ma sarà proprio
lui la nemesi che gli farà sudare per il resto della vita la ricerca della
“battuta perfetta” che lo faccia amare. La pregnanza con la trama del presente
è di tutta evidenza – le battute di Spinato sono spesso migliori di quelle oggi
in voga, questo va detto.
D’Amicis ha scritto un bel libro. E’ un bravissimo scrittore che
mi sembra in potenza un grande scrittore – uno dei migliori in Italia. Il punto
decisivo, a mio avviso, sta in una domanda: quanto gli interessa narrare? La
sua lingua (capace di passare da un tono all’altro, da un registo all’altro con
grande abilità) è così densamente espressiva, così costantemente e mirabilmente
tesa verso la determinazione esatta di stati d’animo, condizioni psicologiche
etc da raggiungere spesso vertici di definitezza ammirevoli; peccato però che
gli prenda la mano, che si acclimati a volte in una “letteratitudine”
compiaciuta, così al racconto capita di perdere ritmo o naufragare nel
frammento o ancora, più spesso, d’esser tirato via in fretta, passando da un
fatto, un momento o un ambiente all’altro per troppo libera associazione –
ancorché veritiera nella similitudine, nell’analogia, nella corrispondenza.
Uso termini di scuola, ché mi sembrano indicativi della forza e
della debolezza insieme di questo lavoro: l’acribia linguistica è degna a volte
della migliore poesia, ma lo sforzo mi sembra pagato dalla tensione narrativa,
che a volte viene perduta (basterebbe constatare l’uso eccessivo
dell’imperfetto). Inoltre, tende a spiegare troppo spesso ciò che le scene
potrebbero limitarsi a mostrare; anche lo splendido dialetto dei dialoghi, a
mio avviso, potrebbe fare a meno della traduzione che quasi sempre segue fra
parentesi. Quando D’Amicis dà maggiore corpo alle scene e vi si abbandona, vien
voglia di applaudirlo, ché sollecita cuore e intelligenza insieme, emoziona,
diverte. E vai a rileggerlo. Perché ti dice il presente e il passato prossimo
italiani come pochi.