4 dic 2010

ahi serva Italia

libertà dei servi



Visto che non ne possiamo più, anche solo di pensarlo, diciamolo subito: il saggio di Maurizio Viroli ci servirà perché a futura memoria si tengano presenti le responsabilità ennesime di questa gente italica che non è mai diventata popolo, quella che adesso tutti fanno a gara a paragonare all’ignaro chiamato in causa da Ettore Petrolini perché “non buttava di sotto” il frescone che lo fischiava. Fino a ieri gli stessi hanno tessuto l’elogio della “straordinaria comunicazione” che teneva insieme la servitù e il suo padrone di Arcore: i bisogni terra-terra, il parla come mangi e la cultura da strapaese.
Professore ordinario di teoria politica a Princeton, Viroli è uno degli ultimi a tentare in modo non approssimativo di definire la natura politica dell’Italia berlusconiana che sembra sempre lì per finire e che siamo in molti a temere non finirà (presto) anche tirando le cuoia l’uomo (l’uomo?) che ce l’ha regalata. Oddio, tirasse le cuoia proprio ora ne farebbero un martire – che almeno faccia l’unica cosa che ci sembra ragionevole anche se nessuno nel blablabla infingardo dei poveri notisti politici che ci ritroviamo lo dice mai: andarsene alle Bahamas o dove vuole lui purché fuori dalle palle. Dal “Corriere” giù per li rami, infatti, nonostante la citazione petroliniana, ancora si pratica la retorica della dialettica dei poli, omettendo quel che ognuno volendo sa, che Berlusconi mentre cerca di difendersi dai processi in corso quotidianamente combina affari da produrre super-lavoro nelle procure: fuori dalla politica il posto per lui, tecnicamente parlando, resterebbe quello che oggi riservano ai ladri di polli. Indovina indovinello.
La libertà dei servi, Viroli doveva dapprima scriverlo in inglese perché gli fu chiesto di spiegare agli anglosassoni, increduli, cosa succedeva in Italia – e anche questa è una vecchia storia. 
La ricerca fatta dallo studioso concerne il nome giusto da dare a questa fase della storia italiana, e utilizzando la lezione di Cicerone, Machiavelli, La Boétie, egli conclude che non siamo propriamente in una dittatura (in Italia si vota, esistono giornali contrapposti a quello del signor B etc), meno che meno siamo in presenza di totalitarismo o dinastie di tipo asiatico. Il potere di B. secondo lui è totalmente legittimo (su questo, anche restando alle mere procedure come si sforza di fare lo studioso di stanza in America, non sarei così sicuro, visto il modo in cui B. ha aggirato la legge del ’57 sull’ineleggibilità dei concessionari pubblici che avrebbe dovuto impedirne la stessa candidatura – approfitto qui per dire una cosa che penso da sempre: la Lega Nord, ossia un partito che si dichiara(va) fuori dello Stato con l’esplicito obiettivo di farne uno a parte, avrebbe dovuto essere messa al bando da subito: la sua lotta avrebbe dovuto condurla, per ovvie ragioni politiche, fuori dal parlamento, ne fosse stata capace, manu militari)
La cifra vera del nostro presente per Viroli sarebbe il sistema di corte, quello in cui un uomo solo o una stretta oligarchia si circondano di una moltutidine di servi. In questo sistema gli uomini e le donne sarebbero formalmente liberi; tuttavia, un elemento caratteristico della corte, il potere enorme di chi lo possiede, finisce per renderlo arbitrario (qui Viroli non sembra sicurissimo e tende a oscillare da un formalismo teorico-costituzionale all’ovvietà del buon senso che ci squaderna ogni giorno exempla di un dominio più indiscreto dello stesso fascismo – si veda il neurolinguista George Lakoff e il suo Pensiero politico e scienza della mente, con i suoi concetti di frame e inconscio cognitivo che dimostrano come una visione del mondo possa costituirsi molto in profondità nelle nostre menti, specie se c’è qualcuno che può decidere per noi il racconto di riferimento: nessuno al mondo può farlo meglio delle tv di Berlusconi, non perché sia bravo, ma perché il frescone di Petrolini etc) .
Sosteneva Cicerone che nel sistema di corte si crea dipendenza. E mai come in questo caso, dai mezzi di B. dipendono molto persone che volontariamente servono il padrone, a differenza dello schiavo o del mero suddito che sono costretti a obbedire con la forza.
Torna un pensatore caro al paradiso, La Boétie, che mostrava come l’allargamento del cerchio dei servi (volontari) possa soppiantare numericamente quello di coloro la cui dignità impedisce di accettare un regime così umiliante. Quelli che traggono vantaggio dalla tirannide, e non si fanno scrupoli di meritersala, sono impastati in una mentalità di adulazione, soffrono di un’esibita mancanza di dignità (gli italiani la chiamano furbizia), di una marcata ossessione per l’apparenza. Questa poca stima di sé degli italiani, esemplata dice Viroli nella figura di Arlecchino il quale presume di non saper fare niente e quindi trova normale il servire, era stata a suo tempo decodificata in un testo che non casualmente la scuola italiana ha ignorato per almeno un secolo e mezzo (ma anche oggi non è che le nostre professoresse ci vadano a nozze…): parlo del Discorso di Leopardi sugli italiani.
B. replica un modello in qualche modo presente nel Quattrocento, quello dei Medici che costruiscono una corte all’interno della repubblica (ma con forza ben minore, il Magnifico: non le aveva mica le televisioni lui). Un potere così persuasivo casomai ha potuto vantarlo la corte vaticana del ‘500 o del ‘600, un modello che ha portato alla perfezione lo stile del cortigiano: parlare com simulazione, intuire quello che vuole il signore prima che egli lo dica… La paura domina sovrana dalle parti della servitù. E se parli loro di fierezza morale, be’, ti ridono in faccia. Se B. dovesse fare il grande passo, quello di togliersi dai coglioni, a maggior ragione se gli concedessimo pacificamente di farla franca, non potremmo obbligarlo a portarsi con sé, nelle sue isole, qualche milione di italiani?




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