11 gen 2011

Temperamente - Un'intervista al sottoscritto

un grazie a Carlotta Susca, autrice dell'intervista



Salve e benvenuto su Temperamente. Di Michele Lupo è stato recentemente pubblicata per i tipi di Stilo la raccolta di racconti I fuoriusciti, recensita da noi qui.
Blog, riviste di critica letteraria, reportage, e poi i racconti e il romanzo: il Suo approccio alla scrittura è diverso volta per volta? Quali sono le costanti nello scrivere?
Sono cose diverse. Considero tuttavia che vi sia un’etica della scrittura – l’estetica è una conseguenza. Dopo l’urgenza di dire dei Romantici, Flaubert mostra una volta per tutte che le cose in letteratura sono i nomi che utilizziamo per dirle: non possiamo che passare di lì. Ovvio però che c’è una densità e un’intensità nella stesura di un romanzo che cerchi di rendere definitiva. Per questo, la scrittura di un libro in un certo senso non finisce mai. Quanto al blog, mi piace parlare soprattutto di libri altrui.
Può essere definito un paradigma di comprensione della realtà, la consapevolezza della «persistenza di molti sud»?
Se si riferisce alle note di copertina della raccolta di racconti I fuoriusciti, volerei un po’ più basso, diciamo intorno alle italiche latitudini. È uno dei nostri paradossi, l’Italia è soprattutto un sogno di poeti, dal più grande di tutti a «scender per li rami». La politica raramente è stata all’altezza della situazione, così come l’ethos popolare, incapaci entrambi di pensarsi sia come nazione che come stato: la frammentazione municipal-regionale però, ed è l’altro paradosso, si è de-scritta attraverso un codice comune ossia una reciproca chiusura antimoderna, antilluminista, mai sufficientemente laica. Le eccezioni, dalle storiche esperienze napoletane a quelle milanesi, confermano la regola. E per quanto antipatico risulti ricordarlo, si è trattato sempre di élite.
La forma del racconto è difficile da gestire: le storie dei Fuoriusciti sembrano aspirare ad una narrazione più distesa, sembrano condensare molto materiale e personaggi. Come trovare l’equilibrio giusto per tenere teso il filo narrativo nel breve spazio del racconto?
Non ho una risposta univoca, ogni racconto sollecita problemi diversi. Personalmente, credo di avere un passo narrativo più adatto al romanzo – sto terminando il quarto. Tuttavia, circola un vecchio pregiudizio: un romanzo può essere tante cose diverse (chiamiamo infatti romanzi oggetti letterari lontanissimi fra loro), il racconto lo si vuole per forza concluso in una forma compatta, sigillata. L’egemonia delle ‘storie’, il baricchismo di questi anni hanno peggiorato la situazione. A me interessano di più i personaggi. A volte, quelli dei miei racconti continuano ad avere una loro vita anche dopo; mi piace pensare di poterli rivedere da qualche parte. Altre volte – è il caso di Congedo, il racconto finale della raccolta – la poetessa che ne è protagonista chiude la porta al mondo, quindi anche a me.
Lei è anche un insegnante. Quali strategie pensa possano essere vincenti per contrastare l’egemonia televisiva? Domanda da un milione di euro: come far capire ai ragazzi quanto la letteratura possa cambiare le loro vite?
Oddio, vincenti contro l’egemonia televisiva… La vedo dura. Spegnere la televisione per decreto? Con i ragazzi, per ciò che mi riguarda, conosco solo una possibilità: leggere ad alta voce. Stare sui testi, non sul commento ai testi, e fargli sentire il respiro e la rabbia di Buck, vedere l’ombra immensa di Moby Dick sull’orizzonte che s’incupisce, sentire la terzina dantesca come si snoda e s’avvita e si snoda da capo fino a quando il cuore di chi ascolta comincia a battere con la stessa pulsione ritmica di quei versi senza che egli se ne accorga. A margine, far loro una domanda: credono che il mondo sia bianco o nero? Se la risposta è no, mostrare come per avvicinare la complessità non vi sia risorsa migliore della letteratura.
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