26 mar 2011

Cinema Asiatico

una mia recensione a un libro di Dario Tomasi, pubblicata sulla bella rivista di Saul Stucchi
Rashomon
Che cosa conoscono i giovani cinéphiles veri o sedicenti che non mancano di seguire ogni nuova uscita di Kim-Ki-Duk (negli ultimissimi anni un po’ rallentato) o Jonn Woo della grande storia del cinema dell’Estremo Oriente, che ciò significhi Cina o Giappione, Taiwan o Coree, Ozu o Mizoguchi, Kurosawa o Imamura? Studio dunque utilissimo il libro di Dario Tomasi, professore di storia del cinema all’università di Torino. Il cinema asiatico assomma e cerca una sintesi fra le ragioni tecnico-formali e il contesto sociale di ogni paese implicato nell’indagine. 
Tomasi restituisce la traccia sintetica e per forza di cose non esaustiva ma attenta a richiami eterogenei e altamente significativi di un percorso avviato col cinema muto giapponese e gli anni Trenta, che passa per un repertorio di opere sensibili agli eventi bellici, alle costruzioni ideologiche, al genere, al dramma storico, alle “storie di samurai, eroine e cavalieri erranti”, alle arti marziali, nonché ai rapporti con l’arte teatrale del “noh” e del “kabuki”
 e consapevole delle influenze occidentali per così dire “in entrata e in uscita”. Concludendosi con una panoramica sulla filmografia essenziale degli ultimi vent’anni e in ideale rapporto di complementarietà fra esempi di espressività al limite, essendo estreme le scelte formali di fondo, che passano dal ritmo lentissimo e dall’architettura essenziale del cinema di Ozu a quello frenetico di Tsui Hark.

Quel che più conta, nel lavoro di Tomasi, è il fatto che il cinema sia visto come un’arte che racconta sì una parte di mondo (la conoscenza della cui antropologia culturale aiuta la definizione di una mappa di topoi orientativi), però inserita in un più ampio orizzonte che tiene insieme la problematizzazione di questioni tecniche ed espressive (puntuali le analisi che concercono le scelte stilistiche), i concreti apparati produttivi che rendono possibile il mondo-cinema e le più complesse ragioni storiche e sociologiche (diverse da paese a paese) che fanno da sfondo non inerte alle opere studiate  (capolavori o meno, poco importa). Di volta in volta le opere-exempla illuminano, anche con violenza, lo scenario del loro tempo offrendo perciò modelli di ragguardevole persuasività al cinema occidentale. Possono rappresentare una particolare risposta al giogo del potere o una sua introiezione più o meno obbligata, secondo dinamiche proprie a ogni  arte, a un certo modo di intendere i rapporti fra le persone, in uno scandaglio che non può dimenticare i tratti nazionali ma nei casi migliore, riesce ad andare oltre. 

Tomasi
Quando lo fa, questo cinema invece di chiudersi in se stesso, parla al resto del mondo: basti ricordare che Rashomon di Kurosawa è stato usato, probabilmente con eccessiva disinvoltura teorica, nell’Europa intellettuale quale paradigma di un certo relativismo del punto di vista che nel postmoderno l’ha fatta da padrone – o forse sarebbe il caso di parlare di pluralismo e ripensare Isaiah Berlin? Di fatto, così, si inserisce nella migliore storia dell’arte contemporanea tout court. Seguono una bibliografia aggiornata sull’argomento e un per niente scontato (nell’editoria attuale) indice dei nomi. Ricordo che Dario Tomasi è anche autore di monografie dedicate ai più grandi registi della storia giapponese.
Michele Lupo

Dario Tomasi 
Il cinema asiatico
L’Estremo Oriente

Editori Laterza

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