29 mar 2011

Lettura dell'ultimo romanzo di Alessandro Bertante su Lankelot


http://www.lankelot.eu/letteratura/bertante-alessandro-nina-dei-lupi.html


NINA DEI LUPI


Sono diverse le cose cui a un primo sguardo potrebbe far pensare questo libro di Alessandro Bertante – molto sponsorizzato da un drappello di scrittori che lo vorrebbero vincente al Premio Strega (ma non era un premio di merda?, o si pensa di ridargli un minimo di credibilità?). A prima vista sembra un paesaggio apocalittico di quelli alla Cormac McCarthy - più per il tono che per il décor, qui rurale-montanaro -, da fine dei tempi, come succede anche al Davide Longo de L’uomo verticale; oppure una riscrittura di s-fondi mitologici e non sai quanto nostalgici di arcane, insidiose purezze da opporre all’insensata violenza del presente (non mancano suggestioni simili, sempre per restare alla recente letteratura italiana, nell’esordio della Di Pietrantonio o nell’ultimo De Pascalis), le stesse che invece smitizzano nei loro ultimi romanzi Ernesto Aloia, e per via laterale e in tutt’altro contesto Adrian Bravi. Perlopiù, nonostante la prominenza di aspetti magico-simbolici cui soggiace la stessa storia esemplare dalla bimba Nina, che seguiremo attraverso la sua iniziazione verso una risoluta compiutezza femminile, l’autore riesce a sgombrare il campo da finte nostalgie, evitando di tentare improbabili recuperi di terre promesse con quell’effetto posticcio di certa romanzeria d’oggidì che simula l’autentico “de ‘na vorta” e suona fastidiosamente falso. Interessa piuttosto qui il farsi di un mondo in frantumi dopo la “Sciagura” che lo ha quasi spazzato via,  la distruzione di tutto ciò che riconosciamo come umano lì a un passo dal paese – il mondo fuori da fine della storia che preme per chiudere i conti anche con il piccolo paese di Piedimulo, luogo centrale del racconto (“un posto selvaggio, intriso di leggende, ottusità ancestrali e della fatica secolare che solo i montanari conoscono”). Più che lo scenario catastrofico, dunque, la possibilità di una rigenerazione, un nuovo inizio possibile.
 
Quindi la storia che si racconta è essa stessa mito (con il ritorno del mito - e alternativamente, a seconda, il bisogno di finirla con il postmoderno, oppure con le macerie del relativismo, l’urgenza di una ri-fondazione sembra passare attraverso una bonifica del razionalismo che è ormai diventata un’ossessione della narrativa italiana da un po’ di anni a questa parte, con tutti i rischi che comportano le “tendenze”, per usare un termine modaiolo: le monnezze si sprecano). La tenuta diNina dei lupi è di sicuro più robusta, a tratti potente. L’atmosfera cupa e minacciosa è credibile, le parole di solito misurate, composte, alcuni passaggi belli; meno, a mio personalissimo avviso, quelli che riprendono movenze liriche da passi e ballate tradizionali alpino-celtiche e il fantasy che si affaccia a tratti corrivo e manicheo con la sua linea di separazione qui vs altrove, noi vs loro etc. I personaggi del libro si muovono in uno scenario di violenza primordiale, terribile, ma dopo il crollo della civiltà emerge la necessità di ricostruire (sono chiari i rimandi allegorici al presente). Ed è quello il compito che aspetta Nina, che nella catastrofe  che riduce le cose alla loro natura essenziale, crescerà molto prima degli altri e scaverà dentro di sé e nella natura stessa che la circonda l’opportunità di salvarsi dal buco nero della storia umana che sembra voglia inghiottirci.

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