30 apr 2011

Le stanze nascoste di D. Raymond


stanze-nascosteGianfanco Franchi su Lankelot ha scritto che Stanze nascoste, libro di Derek Raymond (traduzione per Meridiano Zero di Federica Alba e Pamela Cologna), è “un ibrido tra un memoir, un potente trattato di estetica e genetica del noir e un pamphlet etico-politico.”La definizione plurale rende giustizia di un libro in cui il noir è al centro delle riflessioni però addensate con puntigliosa acribia su argomenti disparati, dai ricordi di famiglia ai ritratti archetipici di figure umane decisive per comprendere l’essenza del noir stesso, e non poche considerazioni sull’asprezza dell’esistenza   continua  sul recensore.com http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/04/le-stanze-nascoste-di-derek-raymond/

27 apr 2011

Casanova e Venezia

Casanova non è Don Giovanni. Casanova s’innamora. Crede di innamorarsi. Lo fa credere alle sue amanti, che son molte meno del più freddo Don Giovanni. In quest’ultimo la seduzione non disdegna toni cupi, sadici e funerei. Laddove “luminose e clownesche” sono le avventure erotiche de L’uomo che inventò se stesso, come lo definisce l’autore del libro che nel titolo enuncia programmaticamente il punto di vista da cui inquadrare l’esperienza del grande veneziano.
Casanova è un maestro del travestimento, utilizza la maschera di cui ha più bisogno momento per momento. Gioca, e rischia; a suo modo, però, un sentimentale. Un avventuriero sensibile, non sempre facile da comprendere, ma capace di ingannare come pochi, 
Un massone, anche. Non ultimo, uno scrittore. Lo sappiamo. Che ci aveva già raccontato nelle bellissime Memorie questa sua vita mirabolante, oscillante fra poli opposti, dramma e commedia, miseria e nobiltà si potrebbe dire, come si addice a ogni mascalzone di genio. Ora il giornalista Emilio Ravel mette a verifica l’autobiografia con documenti alla mano e ci consegna questo libro da leggere come un romanzo – l’espressione è abusata ma in questo caso non surrettizia.  
Il seduttore che fatica più del lecito, che mente spudoratamente, è anche capace di sfoggiare una rara erudizione. Per comprenderlo più a fondo bisogna tornare a Venezia. Venezia (“sexe femelle d’Europe” secondo il poeta Apollinaire, non estraneo a mio avviso a certi tratti casanoviani nel suo approccio al mondo) è la chiave d’accesso secondo  Ravel, per cercare una matrice nella vicenda biografica di uno degli uomini-mito della storia moderna (non è che ve ne siano poi tanti). 
Ravel
Città voluttuosa, dunque, adattissima al gioco truffaldino di un uomo pronto non solo a cercare in una gondola un cantuccio buono dove giocare con le ragazze, ma anche pronto a promettere matrimoni pur di raggiungere l’immaginabilissimo scopo del momento. Città ricca che però lui conosce dalla specola non invidiabile di una nascita non fortunata: il padre era un ballerino povero in canna che doveva assistere in silenzio al godimento dei patrizi che mostravano di apprezzare le grazie di sua moglie. Girovago per indole e necessità, Casanova sentirà sempre il bisogno di riscattare questa origine. E non gli par vero di misurarsi con l’intellettuale per eccellenza, monsieur Voltaire, che prova a snobbarlo, ma dovrò confessare che il nostro è un osso duro. Che se non altro può dargli lezioni di letteratura italiana. Se è vero che la vita è teatro, Casanova, nonostante le insicurezze di fondo dovute a questa nascita, è un primattore.
Un altro bel libro dunque per La Lepre Edizioni, piccolo marchio romano. E la domanda sorge, come usa dire, spontanea: perché spesso la piccola editoria non solo fa libri migliori delle majors dal punto di vista dei contenuti, ma la stessa confezione nel suo complesso, carta, cura grafica e editoriale, aggiunge all’opera l’infantile, forse feticistico  ma innocuo piacere di tenere il libro fra le mani? Riuscite a immaginare la stessa cosa con uno Stile Libero?
Michele Lupo

25 apr 2011

roedelius & tim story

Tim Story and Roedelius
roedelius & tim story
from 'Inlandish' (2008



Tutto deve crollare - come rischiare il capolavoro

http://www.lankelot.eu/letteratura/cannella-carlo-tutto-deve-crollare.html
mia recensione al libro di Carlo Cannella, pubblicata su Lankelot.eu

dopo l'ottimo Niente da capire http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=1001 di Luigi Bernardi un altro libro importante da perdisapop

“I giornalisti hanno con la vita lo stesso rapporto che le cartomanti hanno con la metafisica, passano metà del loro tempo a parlare di ciò che non conoscono e l’altra metà a tacere di ciò che sanno”. Questa frase, folgorante e vera, mi sembra una buona introduzione al libro diCarlo Cannella Tutto deve crollare, romanzo ricco di immagini di grande, straordinaria potenza. Il personaggio principale è un italiano senza scrupoli che in Brasile impara l’arte del crimine - sfruttamento della prostituzione prima, traffico di organi e su scala mondiale poi. Ha un braccio destro, Fernando, che lo aiuta a rapire una bambina india, Isabel, che lui trasformerà in moglie (schiava personale, per la precisione). Con la figlia nata dal rapporto, lo scenario di violenza si allarga. L’uomo dovrà scoprire che nonostante l’onnipotenza da lui teorizzata e praticata - onnipotenza nella quale il capitalismo finanziario mostra il suo presente volto criminale - verrà tradito da tutti, Fernando compreso, che farà impazzire la moglie india e la figlia afflitta da un sorta di sindrome di Stoccolma. Tutto questo nel libro è reso attraverso una grande forza visiva, plastica, immaginativa. Conosciamo dal di dentro il punto di vista del criminale, e nello sguardo disincantato e feroce di cui esso dispone, com’è della buona letteratura - che lo voglia o meno l’autore empirico e per quanto la cosa appaia ributtante – non stupisce scovare punti di vista controversi. Un buon romanzo, benché sappia da che parte stare com’è in questo caso, sa offrire ragioni paradossali al punto di vista del nemico. In questo senso Tutto deve crollare fa benissimo il suo dovere, fino al punto forse di risultare indigeribile per molti lettori che cercano consolazione con i buoni sentimenti. A mio avviso, invece, ciò che dimostra molto bene, non so con quanta intenzionalità da parte dell’autore, è che la vera letteratura non è pericolosa solo per i tiranni ma per le stesse democrazie.



Leggo in rete queste parole dell’autore in risposta a una domanda sui fini che si era proposto con il libro, dapprima pubblicato in vibrisselibri, la casa editrice “virtuale” di Giulio Mozzi: “Dare una rappresentazione esaustiva del male: mostrarne il volto, scenderne alle radici, spiegarne le ragioni”.
Gli è riuscito benissimo. Tutto deve crollare in certi momenti impressiona. Impressiona la scrittura, l’esattezza nominale che non teme di dire la violenza per quello che è, la totale assenza di consolazione (non ci aspettiamo infatti che la sinistra ne faccia un vessillo – oggi la sinistra in Italia si accampa nelle lagne di Vecchioni). Dire come fa Cannella nella stessa  occasione che è importante “descrivere l’atto nella sua crudezza” che una  “radicalità della visione (volgare perché volgare è la violenza) è un dovere delle parole” può trovarci d’accordo. Così anche questa proposizione: “Se la letteratura si limita a rappresentare il senso di pietà, la commiserazione per l’osceno, e non a dare una visione reale e cruda della violenza, diventa inevitabilmente romantica.”
Fosse tutto così liscio questo sarebbe uno dei più grandi libri degli ultimi vent’anni. E invece qualcosa non funziona a dovere. Il niccianesimo paraculo del personaggio principale è verboso, grava sulle azioni sottraendogli spessore (ne avrebbe di enorme) per la tendenza a dire troppo. Sull’analisi dei paradigmi simbolici che governano o subiscono il mondo si può concordare. Che l’arroganza gigantesca delle oligarchie oggi al potere abbia bisogno di milioni di cretini, lo sappiamo, solo che qui è detto in dialoghi o sermoni monologanti troppo lunghi: difetto non raro di certa letteratura italiana corrente. In questi thriller d’idee (penso a quella sorta di romanzo “storico” che è L’odore acido di quei giorni, di Paolo Grugni, sugli anni Settanta, oppure al romanzo “epistemologico” di Bruno Arpaia, L’energia del vuoto – li ho entrambi recensiti suwww.paradisodegliorchi.com), i personaggi in certi momenti rischiano di sparire dietro alle idee stesse, di diventare mere funzioni astratte e valoriali. Parlo di economia letteraria, va da sé.
Nella seconda parte, la figlia va a cercare la madre in Brasile. Pure qui non mancano le pagine pleonastiche, per esempio quelle sulla crescita culturale della ragazza, sulla musica che ascolta, sui gusti che cambiano con il tempo. E quando entra in scena il deus ex machina della vicenda, un ex militante di Lotta Continua ossessionato dal bisogno di regolare i conti con il padre della ragazza, accade che le scene in situazione siano appesantite dal bisogno di concettualizzare ciò che dovrebbe essere evidente in sé. Sarebbe bastato lasciarli agire, i personaggi – nel libro di Cannella, il rischio sarebbe stato il capolavoro.



24 apr 2011

Bruno Osimo - Dizionario affettivo della lingua ebraica



“Dopo avere fatto tantissimi lavori - tra cui l’autista a New York senza avere la patente e senza saper guidare – Franco è finito a fare il contabile in California per una multinazionale petrolifera che aveva una politica antisemita, quindi, paradossalmente, dopo essersi salvato dal fascismo e dal nazismo in Europa, in America ha dovuto nascondere per tutta la vita fino alla pensione di essere ebreo sul posto di lavoro per evitare di essere, non sterminato, semplicemente licenziato. L’azienda per la quale lavorava aveva una politica discriminatoria verso gli ebrei dettata dalle splendide relazioni con le famiglie regali arabe.” Questo brano è un breve saggio della scrittura di Bruno Osimo. Non sempre il suo curioso romanzo Dizionario affettivo della lingua ebraica è così divertente, altrimenti sarebbe un capolavoro. 

22 apr 2011

Bella lettura de I fuoriusciti di Saba Ercole

http://michelelupo.blogspot.com/2011/04/blog-post_22.html?spref=fb
http://www.libriconsigliati.it/i-fuoriusciti-di-michele-lupo/


I fuoriuscitiValutazione Libriconsigliati: da non perdere.
Il destino, in provincia, può far più male che altrove: è in questa frase, pronunciata dal protagonista del primo dei racconti di Michele Lupo, editi per la casa editrice Stilo, che il lettore troverà il cuore dell’intero libro. Un cuore pazzo, lacerato, che ora batte a ritmo frenetico come quello di un prete che ascolta una terribile confessione (Ego te absolvo), ora pare bloccato, immobile, come quello di una poetessa ripiegata in una crepa di vita senza movimento (Congedo).
Tutti i protagonisti de I fuoriusciti vivono destini che fanno male, che feriscono profondamente. Sulle loro spalle grava un peso che contraddistingue tutti gli esseri umani, ovvero quello della crudeltà quotidiana, che la vita di provincia fa pesare come una condanna.
Come una divinità arcaica e onnipotente, la periferia influisce sul destino di questi uomini, che a questo destino reagiscono in modi diversi. C’è l’artista fallito, babysitter per necessità e caso, che con un gesto assurdo sembra liberare la sua vita da una presenza che lo ha tormentato come un cancro (Il babysitter); c’è il libraio che con un gesto violento decide di cancellare il simbolo di quella vita frenetica e schizoide, incomprensibile, in cui è stato rigettato (Cimento del tempo libero); c’è la poetessa che rifiuta di combattere (Congedo) e la donna che preferisce accontentarsi di una felicità convenzionale e bugiarda (La sciarpa verde). Perché tale è la felicità nei racconti di Michele Lupo: una convenzione, materiale e sociale, che si deve accettare, pena l’essere considerato un outsider, un fuoriuscito, un romantico idealista che, proprio per il suo esser tale, è candidato all’eterna sconfitta.
Ciò che colpirà il lettore è che coloro i quali, in questa provincia onnipresente, siedono sul podio dei vincitori, sono proprio quelli di cui il destino si è fatto le beffe maggiori, donandogli una medaglia pesante, scomoda, dorata solo per autoconvincimento. Una beffa di cui l’umanità perdente è consapevole, e proprio per tale motivo i gesti di questi falliti assumono un’aura eroica, effimera e immortale al tempo stesso, lucida e razionale nella loro assurdità. Perché è proprio qui il paradosso, nell’assurdità di gesti con cui l’uomo rivendica il suo libero arbitrio e si sottrae alle maglie del destino. Anche solo per un breve, trascurabile istante.
I fuoriusciti di Michele Lupo sono, dunque, sei racconti incentrati su questa lotta effimera ed eterna, proprio come l’uomo. Sei racconti che si insinuano nella mente del lettore come schegge di vetro nella carne: per il loro essere impietosi, per lo stile asciutto e tagliente come una lama, per i suoi protagonisti, piccoli titani del XXI secolo che nell’effimera solennità di un gesto senza senso ristabiliscono, per un attimo, il potere degli uomini sul destino e costringono i loro simili a chiedersi davvero cosa voglia dire essere felici.
Saba Ercol

L'audio è pessimo ma la musica è ottima


21 apr 2011

Ancora una volta, è giovedì

http://www.tornogiovedi.it/2011/04/caro-il-mio-cazzo-di-editore/
al solito, grazie dell'ospitalità a Fernando Coratelli

Caro il mio cazzo di editorela foto è di Francesco Di Maio
siamo su MacchiaUmana - e Insana

Park Chan-Wook

Che la cinematografia asiatica (ci si perdoni l’approssimazione, peraltro legittimata dall’uso che ne ha fatto un esperto quale Dario Tomasi in due libri recenti) negli ultimi anni sia stata spesso la più interessante sulla scena mondiale di un’arte altrimenti agonizzante quale sembra essere ormai il cinema, è per chi scrive fuori discussione. Il cinema coreano in particolare vi ha giocato un ruolo non certo di secondo piano. E avanzando con lo zoom direi quello di Park Chan-Wook, noto per la cosiddetta “trilogia della vendetta”, sbrigativa espressione con cui secondo l’autore di questo saggio, Michelangelo Pasini, si fraintende e sminuisce un po’ l’intera filmografia del regista coreano.
continua  http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/04/oltre-la-vendetta/
oltre-lavendetta-pasini

19 apr 2011

Philip Roth e la Nemesi del più grande

nemesi-rothSono trenta, credo. Trenta romanzi per il più grande scrittore vivente. Che ha scritto alcuni fra i libri più belli di tutti i tempi, alcuni ottimi romanzi e anche qualche noioso sermone o fiacca ripetizione del già scritto tante altre volte prima e meglio. Negli ultimi anni – ne ha settantotto – proprio allegrissimo non sembra: torna di continuo sulla malattia, il dolore, la solitudine, la morte. Lo fa anche in “Nemesi (Einaudi, 2011), l’ultimissimo libro.


continua

Prima edizione 'Premio letterario Paradiso degli Orchi'

http://www.concorsiletterari.net/prima-edizione-premio-letterario-paradiso-degli-orchi
PRIMO PREMIO LETTERARIO PARADISO DEGLI ORCHI per narrativa italiana edita   
Succulento
La rivista di letteratura contemporanea Paradiso degli Orchi (www.paradisodegliorchi.com) indice la prima edizione del Premio di narrativa italiana. Il Premio vuole riassegnare valore alle competizioni letterarie, prese in ostaggio da tempo da compravendite, favoritismi, opportunismi, nepotismi e altro.   La giuria, composta da Alfredo Ronci, Giovanna Repetto, Adriano Angelini Sut, Pier Paolo Di Mino, Gianfranco Franchi, Michele Lupo e Alex Pietrogiacomi, deciderà in piena autonomia quali romanzi considerare per la terzina finale, ricordando che verranno tenute in considerazione le opere  pubblicate dal 1 gennaio 2011 al 31 dicembre 2011.   La premiazione avverrà nella primavera del 2012 in data e luogo da definirsi (apocalisse permettendo) Il motto coniato per il Premio è esaustivo della filosofia che anima lo stesso: non abbiamo pressioni ma solo passioni.   La redazione de Il Paradiso degli Orchi   
Per informazioni info@paradisodegliorchi.com Paradisodegliorchi.com



18 apr 2011

da Lankelot - Bodei e l'ira


IRA - LA PASSIONE FURENTE



il mulino

“L’ira è stata a lungo la passione più importante e più studiata”, ci avverte già nell’incipit il filosofo Remo Bodei, autore di questo piccolo e molto denso volume che riassume in un excursusstorico coinvolgente il senso delle variazioni fenomenologiche e valutative intorno a una delle cosiddette “passioni tristi” della nostra specie. L’ira viene letta ovviamente attraverso la storia letteraria e quella filosofica,  le più indicate per farci un’idea di come i “vizi capitali” siano stati pensati dall’umanità.
Si intuisce dalle prime pagine – e lo confermano in modo esplicito quelle finali, al postutto le meno interessanti perché più psicologistiche e quasi precettive  – che Bodei, nonostante la consideri un evidente segno di insicurezza, si colloca in una posizione di perfetto, lodevole equilibrio fra la condanna e l’assoluzione. La considerazione preliminare è che per lo più “fin dall’antichità le si imputa la perdita di beni i più preziosi, la ragione e l’autocontrollo”. L’essere fuori di sé dell’irato è dovuto a un’offesa che si ritiene ingiusta; diversamente dal risentimento che ristagna, e dall’odio, che medita la vendetta a freddo, l’ira esplode e dura poco. Ci sfigura fisicamente, aumentano i battiti cardiaci, si dilatano le pupille, si alza la voce etc: si capisce che intere epoche l’abbiano osteggiata come una manifestazione anche esteticamente riprovevole.
La sua dismisura per Galeno era un sintomo della follia, e a nulla vale saperla strutturata in una logica. A Bodei, che questo invece lo sa, interessa ricostruirne una possibile genealogia, analizzando l’ira nel tempo e nello spazio, nel rapporto con il potere (ed è qui, quale reazione all’ingiustizia, all’arbitrarietà e alla violenza del dominio, che essa trova le sue maggiori giustificazioni, e parliamo ovviamente di liberazione e legittimità sociali, di gruppo, di classe, di genere), nelle sue declinazioni culturali più varie. Stante la sua ragione biologica, connaturata a un istinto difensivo, non stupisce che non appaia per nulla disdicevole nelle società segnate da un’etica dell’onore, come quella omerica, in generale all’interno di quelle che vengono chiamate “civiltà della vergogna” (si pensi ai samurai che per averlo perduto, l’onore, potevano suicidarsi). Diversamente da quanto accade nelle “civiltà della colpa”, che se trovano nelle religioni il loro spazio più  ovvio, principiano in Occidente con Socrate (non inizia con lui ladécadence per Nietzsche?); ma il percorso è accidentato e controverso. Se l’Iliade è il poema dell’ira però non vuol dire che Achille sia incapace di riflettere. E Aristotele ritiene legittima l’ira che difende la propria onorabilità, purché motivata e proporzionata alle giuste ragioni, specie quelle del cittadino che vede tradire i principi della polis. Il monoteismo ebraico d’altronde mostra subito le sue contraddizioni: il dio veterotestamentario è notoriamente permaloso e non le manda a dire, e una teologia dell’ira rigorosa non può omettere gli aspetti di Gesù meno accomodanti. Gesù difatti oscilla: invita a perdonare, a porgere l’altra guancia, ma appare bellicoso quando annuncia di aver portato la spada (Mt 10, 34-36), e ai mercanti del Tempio non dovette sembrare un compagnone spensierato. Scrive Bodei: “L’insegnamento dei Vangeli è stato spesso edulcorato”. Sempre per restare in ambito cristiano del resto, che dire di Lattanzio e Tertulliano e dell’ira ferale che accompagnerà la vendetta postuma di Dio? E Agostino forse non preferisce l’ira all’odio? E Tommaso? E Dante? Egli predispone la sua palude Stigia alla bisogna apposta per gli iracondi, ma essi sono di una specie che non esaurisce il campionario: vi crepano quelli che non combatterono per cause giuste.
Il libro di Bodei dunque è ricchissimo di spunti, ricorda come spesso nelle comunità ebraiche l’ira di uno solo potesse procurare guai serissimi a tutti gli altri, o come nelle filosofie ellenistiche per essa non vi fosse spazio, come del resto presso i buddisti (aggiungendo l’ira karma cattivo a karma cattivo) e come del resto, invece, per un filosofo unico e singolarissimo quale Giordano Bruno l‘ira potesse persino essere nobile. Ma per comprendere il valore di questo libro valga l’esempio di Medea, la meno spiritosa della compagnia: dalle origini del mito, esso è stato riscritto sino al secondo ‘900. Nel modo diverso di pensarlo, di giudicare la protagonista, si scrive tutta una storia dell’umanità. Leggere per credere.

Comunisti a scuola?


Insomma tutti questi comunisti a scuola che io mi giro e rigiro per i corridoi per la sala-professori (sala mo’…) non ne trovi più uno manco a pagarlo. Tanto che per compensare mi son messo di buzzo buono per lavorare a un recupero di Pol Pot. Possibile che non vi fosse nulla di buono in quel fine stratega? Pensa che ti ripensa… Ecco, le bambine e i bambini cambogiani. Sono i più belli del mondo – è un fatto. La prostituzione, dopo l’Angkor Wat, è la voce più redditizia benché non ufficiale del Pil di quel paese. Questi fanciulli, lineamenti a parte, hanno scritto negli occhi un terrore atavico, mutuato dalle esperienze degli adulti, che contribuisce al loro fascino. Il merito di Pol Pot mi pare evidente – se a voi lettori no, vuol dire che siete comunisti davvero. Ossia fossili della storia ancora alla ricerca – noiosissima peraltro – di un senso logico nel ragionamento. Avete le facce tristi. Pretendete pure di vincere le elezioni, magari, no?

16 apr 2011

Jean-Baptiste Botul



La vita sessuale di Kant

il melangolo 

copertina del libro
Un 'divertissment' pubblicato in Francia nel 1999 che qualcuno ha preso sul serio. Qualcuno ha cioè creduto che Jean-Baptiste Botul fosse davvero un filosofo vissuto fra il 1896 e il 1947, “personaggio controverso, misterioso” secondo il risvolto dell’edizione italiana de La vita sessuale di Kant a cura della casa editrice “il melangolo” (traduzione di Emanuela Schiano Di Pepe). C’è cascato il noto trombone Bernard-Henry Lévy, per dire. 
Il filosofo misterioso, interprete eccentrico di Immanuel Kant, è invece un’invenzione di Frédéric Pagès, giornalista satirico che del libro (suo) si spaccia per curatore, e tenta attraverso il fantasmatico Botul una lettura antiaccademica del filosofo tedesco. Botul – secondo la finzione non esplicita del volumetto - tenne una serie di conferenze in Paraguay nel maggio del ’46, tese a mostrare come la vita sessuale di Kant fosse intrinsecamente legata alla sua filosofia. 
Vero che nel complesso la biografia di Kant non lascia tracce di avventure formidabili. Tuttavia, dal punto di vista dell’ermeneuta che cerca di interpretarlo non mancano i punti d’interesse. Nelle scelte private, anche sessuali, compresa quella di rinunciare a una vita erotica, secondo Botul è possibile insomma trovare le matrici di un pensiero filosofico. Se a Nietzsche l’assunto non sarebbe suonato scandaloso, più divertente invece risulta applicarlo a un uomo che tiene il corpo molto ai margini dalla discussione filosofica. Il celibato in particolare, che di questa vita monocorde è un po’ il simbolo, non solo “è parte integrante dell’essenza stessa della filosofia” ma in Kant trova la sua cifra simbolica definitiva.
Come coniugare la dottrina delle categorie a priori e quella dell’imperativo morale con le pulsioni sessuali? Peraltro – sostiene Botul –, la scelta del celibato in un filosofo dovrebbe essere più la norma che l’eccezione (l’acuta Eloisa lo ricordava all’intemperante Abelardo, prima di Pascal, Spinoza, Hobbes eccetera – i più).
Per non correre rischi, quanto al fastidio delle incombenze quotidiane, Kant si avvalse dei servizi di un uomo tuttofare piuttosto che di una governante. Nemmeno amanti volle per sé – la prudenza era un metodo. Ciò non toglie che egli fosse un uomo meno refrattario ai piaceri della vita di quanto non dica la vulgata. Non disdegnava il cibo, le piacevoli passeggiate, la conversazione: purché moderatamente. Non era contrario alla sessualità in linea di principio, ma preferiva astenersene, con ciò facendo il contrario dei molti “che predicano la castità ma praticano i piaceri della carne”. Il kantismo nella lettura di Botul è una maniera di vivere più che una dottrina. L’ascesi in questo caso non sarebbe il frutto avvelenato della mortificazione, ma addestramento, disciplina. Kant del resto aveva da fare con una lotta già aspra di suo: l’elenco di disturbi da lui sofferti sarebbe lungo. 
Era un ipocondriaco, affezione che in potenza contempla tutte le altre. Ma si controllava - la misura in Kant è un paradigma. Malinconico ma senza darlo a vedere, Kant risulta sospettoso verso le fumisterie, teme di esserne vittima a sua volta, le visioni di uno Swedenbog lo mettono a disagio, essendo un razionalista, ma non si sente mai al sicuro: ha paura della notte, Kant, dei sogni, dell’alienazione. Il sesso per lui quello è, infine: un pericolo. E tenersi lo sperma dentro aiuta la salute, la rafforza. Aiuta persino il ragionamento. Nessuno spreco, anche la masturbazione è bandita, secondo Botul – qui, qualcuno avrebbe da ridire. Chissà se Kant aveva mai sentito parlare di kundalini yoga! Il sesso è come il sublime (nessuno ha descritto la sfera del sublime meglio di Kant). Ci mette a rischio, la sua potenza è sovrumana, ci trascende. I paesaggi vertiginosi, i vulcani, gli uragani, le montagne enormi, gli oceani immensi. E la vulva, cavolo la vulva per Kant è una roba che solo a pensarci, dio mio, la sua intera filosofia ne uscirebbe distrutta. Il sublime unito all’osceno, sarebbe stato davvero troppo, per un tranquillo ma non del tutto pacificato professore prussiano, paziente, meticoloso, ordinato. “Una bomba pronta a esplodere” alle prese con la rivelazione del Noumeno, la cosa in sé – indovinate quale. Non aveva diritto di difendersi e tenersene alla larga, poverino?

Michele Lupo

Cambogia: splendore e miseria - Un reportage



Crocevia 13-14

L'incipit:
Lungofiume a Sisowath Road, dentro uno sfondo di luce ocra, che sembra già filtrata per un film, cui il grigio vapore del fiume aggiunge ondate di riverbero scalfite dalle palme e dall’indaffararsi rilassato di centinaia di persone, di tutte le età - gente che passeggia, perde tempo, mangia. Perlopiù nel sud-est asiatico mangiano a qualsiasi ora, quando hanno fame, quando ne hanno voglia. Alcuni palleggiano con uno strambo affarino di gomma, che rimbalza elasticamente e consente ai giocatori virtuosistici scambi (colpi di tacco, volèè) che nel calcio mondiale di oggi – specie dalle nostre parti – difficilmente si possono gustare… E poi ragazze e donne in pigiama – pigiami indossati come completini casual. Una donna seduta per terra, che il pigiama non può permetterselo, ha accanto a sé una bilancia scassata, rimediata chissà dove: uno passa, si pesa e le lascia qualcosa. Chissà se a Napoli qualcuno ci aveva mai pensato.



Il numero 13/14 della rivista di letteratura internazionale di Crocevia per quanto attiene alla sezione monografica  è dedicato al Montenegro. Fuori sezione, fra gli altri, un mio reportage sulla Cambogia già apparso su L'Unità.


14 apr 2011

L'esordiente Raul Montanari


MONTANARI RAUL

L'ESORDIENTE


L’ambiente editoriale costituisce lo sfondo dell’ultimo romanzo  di Raul Montanari, L’esordiente, che racconta la storia di uno scrittore a lui molto somigliante, nei mesi a ridosso del più importante premio letterario italiano – o del più triste, indovinate quale. Questo scrittore deve combattere non solo con le scontate difficoltà del caso ma contro il pregiudizio mal tollerato di essere un giallista, o un noirista, ossia un genere di scrittore benvenuto dappertutto tranne che al Premio Del Dolore Esibito da ogni letterato che si rispetti per fottere più agevolmente il pubblico infiacchito delle signore sensibili e pronte a frantumarsi il cuore per qualche sera di insana lettura. All’aspirante vincitore del Premio, scrittore navigato ma incline a qualche ammazzamento di troppo, gli viene caldamente consigliato di scrivere cose che non spaventino nessuno.
Livio Aragona, il narratore-protagonista-scrittore per vincerlo il premio deve sbattersi, frequentare le feste giuste, bazzicare persone sgradevoli, persino scoparsi donne non esattamente avvenenti. Non ne sembra granché sconvolto – va detto. La società letteraria ivi descritta ne esce come un ambiente squallido assai, speculare al mignottaio servile con cui questo paese ha deciso di segnare la sua storia presente. Le presentazioni contano più dei libri, l’immagine fisica dello scrittore più della pagina scritta, i salamelecchi indispensabili.
Peraltro, il narratore de L’esordiente insegna in una scuola di scrittura, esattamente come l’autore, ciò che gli dà l’abbrivo per discettare sul suo lavoro, sulle fatiche e i piaceri dello scrivere, sulle scarse chance di una vita di coppia e di famiglia per chi è ossessionato da troppi fantasmi creativi. Molte considerazioni sulla vita, la televisione, maschi e femmine, epperò non proprio originali,– fastidia per esempio il ricorrente motivo nei dialoghi del Dostoevskij che già faceva il noir, che molti classici sarebbero noir e via di questo passo.
La vicende editorial-letterarie de L’esordiente si intrecciano con quelle di un singolare rapporto che il protagonista intrattiene con l’uomo della sua ex compagna, personaggio improbabile, ex criminale che gli chiede soldi di continuo e colpisce violentemente i suoi nemici per tenerlo in scacco. Rischia anche la studentessa che ha una relazione con Aragona, in un primo momento convintissimo che la ragazza sia totalmente priva di talento. Dovrà ricredersi perché la tipa non solo è brava ma rischia addirittura di soffiargli il Premio al fotofinish. Dovrà ammettere che l’invidia lo ha fatto vacillare, che la ragazza, sebbene lontana dalla robustezza che egli può vantare quanto a mestiere e sorveglianza sulla materia narrativa dispone però di un talento maggiore del suo.
Sul giro di frase del romanzo difficilmente puoi eccepire, la scrittura non conosce sbavature, ma nemmeno scarti espressivi mirabili. Raul Montanari sa cosa vuol dire approssimare percorsi oscuri, avvicinare sentimenti e s-ragioni nere della vita quasi senza darlo a vedere, con sarcasmo misurato e indubbia saldezza di nervi e di stile di fronte all’orrore quotidiano. Mi chiedo però se non tema per se stesso ciò che il suo alter ego dice a proposito della raggiunta maturità del suo lavoro: controllo, alto artigianato, sicurezza nell’intreccio ma anche il venir meno della forza d’urto di un tempo. Ora, non è vero che l’etichetta post-noir proposta tempo fa dallo stesso Montanari “tanto interesse e polemiche ha suscitato”, come pretende il risvolto di copertina. Essa è morta sul nascere, come giusto, perché non significa niente. Montanari lo sa bene. Ma le cosiddette ragioni di poetica, non mi stanco di ripeterlo, sono ormai quasi sempre ragioni di marketing e occasioni giornalistiche. Quindi possiamo farcene una ragione. Piuttosto, non sarà che Montanari è un bravissimo scrittore un po’ stanco?

12 apr 2011

Prima edizione 'Premio letterario Paradiso degli Orchi'


PRIMO PREMIO LETTERARIO PARADISO DEGLI ORCHI per narrativa italiana edita     La rivista di letteratura contemporanea Paradiso degli Orchi (www.paradisodegliorchi.com) indice la prima edizione del Premio di narrativa italiana. Il Premio vuole riassegnare valore alle competizioni letterarie, prese in ostaggio da tempo da compravendite, favoritismi, opportunismi, nepotismi e altro.   La giuria, composta da Alfredo Ronci, Giovanna Repetto, Adriano Angelini Sut, Pier Paolo Di Mino, Gianfranco Franchi, Michele Lupo e Alex Pietrogiacomi, deciderà in piena autonomia quali romanzi considerare per la terzina finale, ricordando che verranno tenute in considerazione le opere  pubblicate dal 1 gennaio 2011 al 31 dicembre 2011.   La premiazione avverrà nella primavera del 2012 in data e luogo da definirsi (apocalisse permettendo) Il motto coniato per il Premio è esaustivo della filosofia che anima lo stesso: non abbiamo pressioni ma solo passioni.   La redazione de Il Paradiso degli Orchi   Per informazioni info@paradisodegliorchi.com Paradisodegliorchi.com

potete anche scrivere al sottoscritto  michele.lupo@tin.it
per inviare libri in lettura (premio e/o recensioni) MICHELE LUPO  via Tiburtina 97 - 00019 Tivoli (Rm)

Il corpo della letteratura

attorno-a-questo-miocorpoRitratti e autoritratti degli scrittori della letteratura italia.  Il corpo e gli scrittori, meglio il corpo degli scrittori, visto da loro stessi o dallo sguardo indiscreto degli altri, degli amici, della critica, fra lettere e testimonianze, osservazioni fotografiche e dipinti, autorappresentazioni più o meno sincere: l’inventario delle possibilità è cospicuo, la quantità dei ritratti considerevole, la qualità degli stessi varia e difforme. “Attorno a questo mio corpo” (Hacca) a cura di Laura Pacelli, Maria F. Papi e Fabio Pietrangeli.


continua 
http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/03/attorno-a-questo-mio-corpo/

11 apr 2011

ROMA 15 aprile ore 19.30

Doppia presentazione alla Libreria Rinascita di Largo Agosta 36 (Roma).
Lo scrittore Pier Paolo Di Mino presenta
I fuoriusciti (Edizioni Stilo) di Michele Lupo e L’ora migliore e altri racconti (Edizioni Il Foglio) di Simone Ghelli.






ROSSO IN FUGA (e si avvicina)

Copertina molto molto provvisoria del nuovo romanzo in uscita a maggio
graditi pareri dei quattro lettori affezionati

8 apr 2011

Céline epistolare



Louis-Ferdinand Céline

Lettere a Marie Canavaggia

Archinto

copertina del libro
Marie Canavaggia è stata la segretaria di Louis-Ferdinand Céline. Di più, un essere umano di cui poteva fidarsi. Il che, trattandosi dell’autore delViaggio al termine della notte, non è un dato pacifico. Non era un uomo pacifico, Céline. Certamente, non pacificato. E queste Lettere a Marie Canavaggia, Archinto (bella, elegante confezione), lo confermano. Che della Canavaggia il grande scrittore francese si fidasse ben oltre le questioni di lavoro, lo testimoniano queste lettere scelte che coprono quasi trent’anni. Le dice il dicibile, Céline, dall’esilio danese in cui è stato confinato per i suoi libelli antisemiti. Spara a zero contro i suoi nemici, contro il mondo di merda che ritiene di vedere intorno a sé, si prefigura una specie di apocalisse che lo mondi dalle sue schifezze. Un uomo disperato, che vive con la fierezza livorosa che gli conosciamo l’ostracismo della società letteraria e non solo. Si sente un perseguitato, lo è in un certo senso, “in guerra con tutti”, ma protesta di non aver fatto niente di spregevole – sono i benpensanti quelli che lo hanno cacciato nei guai, gli ipocriti. Non sa niente di piani goebbelsiani. Lui quello che ha da dire lo dice, lo scrive, senza infingimenti e giri di parole, non ha fatto niente di rilevante che possa davvero farlo ritenere un collaborazionista. La stessa Germania hitleriana lo odia, ricorda, lo considerano un anarchico pericolosissimo, cosa poteva avere che fare con loro? Il suo posto più ovvio dice era quello nella resistenza “ma sarebbe stato come passare da una servitù all’altra”. Ne conclude, Céline, che “gli uomini non valgono affatto il disturbo”
Perciò non molla, scrive. Céline detesta la moderazione – i suoi romanzi stanno lì a confermarlo -, se ne strabatte, scrive, di essere corretto, essere sgradevoli è una poetica del resto. La letteratura ha un senso quando ti sconvolge cuore, muscoli e cervello. I “fini distinguo, gli oculati dosaggi di responsabilità sono altrettanti cappi giudei per impiccarci”. Non le mandava a dire, e le sparava grosse, non è una novità. Che i suoi libri siano stati soppressi per decreto, lo trova oltremodo offensivo. Lui è un uomo della legalità, scrive. La Canavaggia legge paziente, attenta, bravissima a interpretarlo, a comprenderlo come nessun altro. Non le piace solo lo scrittore, uno che si dice incapace “di coltivare i rapporti interpersonali”. 
A lui manca la Francia, il francese soprattutto, quella lingua che ha lavorato con un martello nicciano, soffre la “quarantena morale e spirituale” della Danimarca. E ne ha per tutti, per mostri sacri di genere diverso. Uno ce lo immaginiamo: è Malraux, un “povero disgraziato”, uno che scrive “fregnacce”, “mitomane e buffone arrogante” che hanno fatto ministro: “un campione di mediocrità”. Uno di tutta prima meno, ma se poi pensiamo che è americano, i conti tornano. Henry Miller viene da una nazione che produce bombe atomiche, perciò niente di più che “uno sconvolto di Kansas City marcio di letteratura” uno da cui ci si può aspettare solo qualcosa di “rimasticato e arcipontificante”. Insomma, Céline le sparava grosse, e i veri grandi di solito non si amano e non è per questo che vale la pena leggere questo libro, ma per sentire dal vivo di un’apertura incondizionata quanta carne e sangue vi fosse dietro l’opera letteraria di un mascalzone che era anche un grande scrittore.

Michele Lupo

6 apr 2011

Da L'onda sulla pellicola


– E il film?
 
Una parola. Scene, personaggi, dialoghi. Come no. Magari inquadrature, campi, esterni. Perché non essendo propriamente niente, Livio avrebbe voluto essere tutto. Fare tutto – anche perché era difficile che qualcun altro volesse stare dietro al suo nulla. Storia, regia, interpretazione. Cala cala, piccolo. Non sai distinguere un teleobiettivo da uno sturalavandino. Perché, Pasolini sapeva il cinema? No, che non lo sapeva. All’inizio, almeno. Fellini dice peste e corna. Però ci aveva l’occhio, lui. E tu, tu ce l’hai l’occhio? Io, io ci ho la testa un po’ confusa. Giulia in primo piano e il figlio sullo sfondo. Che non schioda, cazzo. Non schioda.

Nonostante Livio sapesse (e molto bene: perché se era fortunato con le donne era solo per l’irresistibile ma fortuito rapporto di forme che si creava fra il taglio dei suoi occhi a mandorla e il volo insolente del suo labbro superiore: nella versione dell’ infermiera professionale Roberta Tisbrino quello che piaceva in lui era una specie di espressione perennemente schifata), nonostante dunque fosse chiaro che nella seduzione di uno sguardo o di una fisionomia non si acquattasse altro che quell’anomalia della natura per cui esso è avulso da tesori nascosti più di quanto ne componga la cifra, fu con Giulia che cominciò a guardarsi con gli occhi di un altro: gli sembrò che non potendo sperare in quelli risolutivi di dio, fossero gli unici possibili. Ora, a parte lo specchio delle sue brame che erano diventate le sue di lui e il sentore sinistro di una sfiga ogni qualvolta si frantumava, quegli occhi facevano un male cane. Come fossero piombati nell’incavatura delle sue ubbie (quelle sugli altri che lo amano lo soffocano e pretendono non si sa che, e sono il suo vero scacco, ciò che sospetta ha mancato da sempre). Come se le avessero sollecitate a uno sguardo continuo, intollerabile. Con Giulia si trovava di fronte a un’impasse: disintegrare la tirannia dell’io e consentire agli altri di essere ciò che erano significava subire quella di chi pretendeva che lui non fosse quello che era sempre stato: in nome dell’amore! Anche se sapeva che stava perdendo la testa per lei, che l’aveva già persa, non voleva diventare il suo fidanzato. Non voleva diventare il fidanzato di nessuno. Una sera si sparò tre seghe una dietro l’altra, così da svuotarsi di qualsiasi desiderio, soprattutto di quello di diventare il fidanzato di Giulia Armena. Quella volta funzionò, dormì a lungo. Ne aveva bisogno. Perché gli aveva messo una strana inquietudine addosso, quella donna. Giulia fu la prima e l’unica a intaccare la plausibilità dei suoi soliloqui, quel modo di parlare di chi sta sempre sul palco e fa della lingua un esercizio estetico, più che altro. Gli sottraeva terreno, lo scaraventava in un niente che lui rischiava di riempire con quel senso di colpa che permette poi agli altri di condannarci. Lo spaventava quella sua capacità di leggergli dentro pensieri o stati d’animo e di smontargli il giocattolo delle invenzioni piazzate a casaccio giorno per giorno e poi erette a sistema di tanto in tanto solo per darsi un tono che non fosse quello del monaco metropolitano che poi si fa cogliere giocoforza nella castagna del più scontato edonismo. Un maligno dio interstellare aveva inviato quella donna sulla terra per fargli toc toc sul petto e sentirne l’eco del vuoto; del nulla. Era questo l’amore, una mazzata.
 
– Però hai una faccia! – disse Fausto prima di andarsene. 
– Sembra la mappa di uno scontro, di una battaglia.
     
– Buonanotte.
 
 Andiamo! era un attore, lui! Un autore, Krishna. Tirati su! Aveva appena rubato in una libreria il manuale di Reisz e Millar, La tecnica del montaggio cinematografico (stava buttato per terra, aspettava solo che qualcuno lo portasse via). E allora impara qualcosa, Krishna. Lavora.
     Sì…
 Certo…
     Lavora…
     Gli piaceva troppo la sua fica, ecco il punto. Ne sentiva la rimembranza odorosa così a lungo che poi, all’inizio, si lasciò incantare anche dalle sue parole, come se piovessero da un pulpito celestiale, anche se non scevre di qual ispido tedio in quell’esposizione accentratrice del dolore che rende certe persone affascinanti perché insopportabili.  Non l’avrebbe mai sospettata in lui la scia di algolagnìa che gli solcò le vene di quell inverno troppo lungo – non sospettava che ne avrebbe sentito la necessità. Il sublime della passione sembrava destinato a impregnarsi dell’ uggia della compunzione. Constatava come un giorno o l’altro qualcosa potesse fottere il disincanto degli scettici più incalliti, o faciloni, un colpo secco che incrinava il piano d’appoggio di chi si era ormai parato il culo da ogni sorpresa sprangando la vita con il nichilismo blindato dell’indifferenza postmoderna. Certo, non ignorava il fatto che buttarla sull’epocale è la frescaccia disonesta con cui le persone colte si levano dall’impaccio di rispondere in prima persona delle loro azioni per di più facendo anche bella figura in società – ma non disdegnava un po’ di routine, ogni tanto: una débâcle intermittente da insonnia, qualcosa come una viltà del corpo, quella sfinitezza che rende un esemplare umano peggiore di come potrebbe essere. O anche questo era un esito dell’amore?



ANDRE DUBUS sul recensore.com

4 apr 2011

Italia?


Passata la rottura di palle del 17 marzo, adesso ci si manda da quelle parti come prima. Langhe vs Pontida, Pisa vs Firenze, terroni vs sub terroni (alias lampedusani). A scuola pure è un tutti contro tutti. Professori contro bidelli, bidelli contro segretari, segretari contro presidi, presidi contro professori. Alunni ripetenti contro promossi. Alunne femmine contro maschi. Per le pari opportunità (le hanno sentite in televisione) pretendono le prime che un professore maschio non esibisca la sua prepotenza storica mascherata da severità didattica facendo domande troppo dettagliate su Dante o Machiavelli o Giovanni Verga – che guarda caso erano maschi (oltretutto non proprio di buon carattere, con immaginabili conseguenze sulla salute delle loro donne). Perciò pare sia arrivato un fascicolo alla procura di zona. Le ragazze della 5° B di un liceo scientifico hanno chiesto il legittimo impedimento di non presentarsi agli esami di stato. Non fino a quando il programma verterà su una sfilza di autori maschi, non davanti a una commissione in cui almeno un professore maschio approfitterà della situazione per ostentare severità e cultura ai danni delle ragazzine indifese. Si aspetta la decisione del magistrato. Speriamo che sia femmina.

3 apr 2011

Bjørnstjerne Bjørnson

Scrittore e drammaturgo norvegese, premio Nobel per la letteratura nel 1903, considerato il padre del moderno teatro del suo paese assieme al più celebre Ibsen, Bjørnstjerne Bjørnson nel dramma in due atti Øver Ævne, tradotto ora da Iperborea con il titolo Al di là delle forze umane, inscena attraverso la storia del pastore di una piccola comunità sperduta fra i fiordi del sub-artico una lacerante contrapposizione fra scienza e pensiero irrazionale.  continua http://www.alibionline.it/biblioteca/2159-per-bjornson-conciliare-scienza-e-fede-e-qal-di-la-delle-forze-umaneq.html
forzeumane

Primo romanzo



da L'onda sulla pellicola

Roma cominciava a incarognirsi con quella nuova frenesia del giubileo. Si favoleggiava di giganteschi progetti che avrebbero finito di straziarla in nome dell’ illuminata visione del mondo vaticana. Pochi avevano da obiettare qualcosa. Non era più di moda, porre obiezioni. Eccepire, veniva ormai considerato uno sport obsoleto di vecchi barbogi che la menavano ancora col materialismo, l’ideologia etc.



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