8 apr 2011

Céline epistolare



Louis-Ferdinand Céline

Lettere a Marie Canavaggia

Archinto

copertina del libro
Marie Canavaggia è stata la segretaria di Louis-Ferdinand Céline. Di più, un essere umano di cui poteva fidarsi. Il che, trattandosi dell’autore delViaggio al termine della notte, non è un dato pacifico. Non era un uomo pacifico, Céline. Certamente, non pacificato. E queste Lettere a Marie Canavaggia, Archinto (bella, elegante confezione), lo confermano. Che della Canavaggia il grande scrittore francese si fidasse ben oltre le questioni di lavoro, lo testimoniano queste lettere scelte che coprono quasi trent’anni. Le dice il dicibile, Céline, dall’esilio danese in cui è stato confinato per i suoi libelli antisemiti. Spara a zero contro i suoi nemici, contro il mondo di merda che ritiene di vedere intorno a sé, si prefigura una specie di apocalisse che lo mondi dalle sue schifezze. Un uomo disperato, che vive con la fierezza livorosa che gli conosciamo l’ostracismo della società letteraria e non solo. Si sente un perseguitato, lo è in un certo senso, “in guerra con tutti”, ma protesta di non aver fatto niente di spregevole – sono i benpensanti quelli che lo hanno cacciato nei guai, gli ipocriti. Non sa niente di piani goebbelsiani. Lui quello che ha da dire lo dice, lo scrive, senza infingimenti e giri di parole, non ha fatto niente di rilevante che possa davvero farlo ritenere un collaborazionista. La stessa Germania hitleriana lo odia, ricorda, lo considerano un anarchico pericolosissimo, cosa poteva avere che fare con loro? Il suo posto più ovvio dice era quello nella resistenza “ma sarebbe stato come passare da una servitù all’altra”. Ne conclude, Céline, che “gli uomini non valgono affatto il disturbo”
Perciò non molla, scrive. Céline detesta la moderazione – i suoi romanzi stanno lì a confermarlo -, se ne strabatte, scrive, di essere corretto, essere sgradevoli è una poetica del resto. La letteratura ha un senso quando ti sconvolge cuore, muscoli e cervello. I “fini distinguo, gli oculati dosaggi di responsabilità sono altrettanti cappi giudei per impiccarci”. Non le mandava a dire, e le sparava grosse, non è una novità. Che i suoi libri siano stati soppressi per decreto, lo trova oltremodo offensivo. Lui è un uomo della legalità, scrive. La Canavaggia legge paziente, attenta, bravissima a interpretarlo, a comprenderlo come nessun altro. Non le piace solo lo scrittore, uno che si dice incapace “di coltivare i rapporti interpersonali”. 
A lui manca la Francia, il francese soprattutto, quella lingua che ha lavorato con un martello nicciano, soffre la “quarantena morale e spirituale” della Danimarca. E ne ha per tutti, per mostri sacri di genere diverso. Uno ce lo immaginiamo: è Malraux, un “povero disgraziato”, uno che scrive “fregnacce”, “mitomane e buffone arrogante” che hanno fatto ministro: “un campione di mediocrità”. Uno di tutta prima meno, ma se poi pensiamo che è americano, i conti tornano. Henry Miller viene da una nazione che produce bombe atomiche, perciò niente di più che “uno sconvolto di Kansas City marcio di letteratura” uno da cui ci si può aspettare solo qualcosa di “rimasticato e arcipontificante”. Insomma, Céline le sparava grosse, e i veri grandi di solito non si amano e non è per questo che vale la pena leggere questo libro, ma per sentire dal vivo di un’apertura incondizionata quanta carne e sangue vi fosse dietro l’opera letteraria di un mascalzone che era anche un grande scrittore.

Michele Lupo

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