28 mag 2011

Renzo Paris e la banda Apollinaire



copertina del libro
Nasce a Roma il poeta dei Calligrammes, sotto il segno capzioso della Vergine, da madre polacca, nobildonna e mignotta elegantissima con il gusto del gioco d’azzardo. Per un po’ di tempo gli piacque far credere che il padre fosse un alto prelato. Aveva un certo gusto del travestimento, Apollinaire, adattissimo a uno dei periodi più straordinari della storia moderna, quelli tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento (straordinari, s’intende, dal punto di vista delle innovazioni del linguaggio - poesia, arte, musica). Sono anni quelli delle avanguardie segnati da uno scompaginamento vitalissimo, beffardo, teatrale delle stesse pratiche del vivere comune. Tutto noto: vite da bohémiens, sperimentalismi che rimescolano in modo inopinato i codici separati di arte e vita in una riscrittura reiterata e mai conclusa, sintesi spettacolare che va oltre la cifra maudit di metà Ottocento e poi wildiana (il grande aforista pagò comunque a caro prezzo la propria omosessualità – e questo non è un fatto in sé immune da implicazioni in senso lato “politiche”) per aprire prospettive più ampie sul piano sociale, oltre che culturale. 
Montmartre, Montparnasse, fauve e cubismo, ma anche molto cazzeggio, va detto. Il libro di Renzo Paris ci riporta a una stagione singolare: da una parte ormai così lontana da poterla considerare una forma di paradossale classicismo (sappiamo tutto sulle avanguardie destinate a finire nei musei), dall’altra, occorre rilevare che molte delle pratiche del tempo, almeno a guardarle dalla prospettiva con cui Paris rilegge Apollinaire, sembrano tutte qui, nel presente debordante dell’ipercomunicazione. 
Storie di bande parigine: artisti, pittori, cabarettisti, poeti innovatori e perduti, tricksters, ideologi trasognati e poco convinti, sciamannati di genio, oppiomani e puttanieri. Uno slittamento storico significativo rispetto alle esperienze solitarie dei Baudelaire e dei Rimbaud; i gruppettari della Belle Epoque sono più agguerriti, Apollinaire e gli altri inventano forme e gesti dirompenti, più ludici che drammatici. Il presunto ribaltamento dei paradigmi borghesi arriva poi alle stagioni degli ultimi decenni spesso finendo invece per acclimatarsi nello stesso comodo regime dello spettacolo funzionale a quello che chiamavano “sistema”.
Ma questo è un altro discorso.
Pur non dissimulando affatto l’amore per Apollinaire e il clima di quegli anni, Paris, che – ahilui – non è da un pezzo un ingenuo giovanotto, non manca di raccontare quanto banale veleno potesse scorrere fra il poeta diAlcools e i vari amici e compagni di sbronze e d’avventure artistiche e umane. Gli scazzi con Picasso e Jacob e Cravan, i duelli schivati all’ultimo momento, la prigione, l’accusa di aver rubato la Gioconda (e Picasso: e chi lo conosce quello!) .Paris non manca di ricordarci certi plateali sogni d’amore, le smanie occasionali per una famiglia normale, che non escludevano frequentazioni allegre di bordelli – l’erotismo giocando in Apollinaire un ruolo centralissimo nella poesia come nella vita tout court. Un erotismo sentimentale, si potrebbe dire. Ci sono tratti nella sua personalità che ricordano quelli di Casanova: entrambi pronti a innamorarsi (a modo loro), truffatori, capaci di mascherarsi a seconda delle circostanze, costretti a reinventarsi di continuo per vivere all’altezza dei propri sogni; entrambi figli di donne allegre in perenne difficoltà economiche. Certi stampi psicologici hanno un loro valore. 
Segnatamente, la madre di Apollinaire, zoccola di gran classe devota alla madonna, lesta a truffare chiunque se ne innamori, sempre in viaggio (ricorda Paris che nelle opere di Apollinaire – del quale è navigato conoscitore - si sente lo sferragliare dei treni), e niente affatto contenta di questo ragazzo che si ostina a voler fare il poeta, be’, la donna da sola varrebbe un romanzo (le parole sono dell’autore, ma le confermo). Il figlio d’altro canto, aduso all’oppio e alla mescalina, fumatore di pipa, en artiste, in seguito si sarebbe voluto “papa” (almeno di quel grande fermento parigino di storie e situazionismi avant la lettre) ma non mancò di bazzicare tipi poco raccomandabili, e di aggiustare cena e letto per dormire accompagnando occupazioni misteriose al lavoro di “nègre di un autore di feilleuttons a corto di ispirazione”. 
Il giornalismo era un’altra sua fissazione; si spacciava per grande conoscitore di faccende geopolitiche, riutilizzava i propri materiali in altre direzioni: e certo, la tecnica del collage allora era una costante, ma Paris vi vede l’immagine di un blogger nostro contemporaneo e simile, nonché un anticipatore di quel genere particolare di narrazione che chiamiamo autofiction (che lo stesso Paris ha praticato, come del resto Houellebecq che Paris liquida come “un povero idiota”: e qui lo scrivente dissente: diverse cose lo lasciano perplesso, ma considera lo scrittore francese autore di almeno due grandi romanzi). 
Insomma, una stagione eccezionale, quella raccontata da Paris, che ha davvero segnato il Novecento – e smettiamola di dire che è stato il secolo delle ideologie, primo perché nell’ideologia ci stiamo ancora immersi fino al collo, e non si chiama comunismo, e secondo perché quella reinvenzione del mondo non ha smesso di produrre effetti, per decenni.
Forse dopo non abbiamo inventato niente.

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