17 ago 2011

Franz Wedekind - Fuochi d’artificio


dal paradiso

copertina del libro
“La carne ha un suo proprio spirito”, a questo principio si ispira, stando alle stesse parole dell’autore, l’arte di Franz Wedekind, scrittore e drammaturgo nato a Hannover nel 1864 e morto in Baviera nel 1918. Le scriveva nel saggio A proposito dell’erotismo che introduce la raccolta di racconti Fuochi d’artificio, leggibile in una nuova edizione curata da Claudio Maria Messina per l’editore Iacobelli. Sono nove racconti che non hanno la forza dirompente del dittico Lo spirito della terra (1895) e Il vaso di Pandora (1904), lavori teatrali fondamentali che segnarono il passaggio di secolo – un vero passaggio d’epoca – fra Otto e Novecento, il cui personaggio centrale, Lulù (donna dal fascino sinistro, vera femme fatale declinata al nero, che sarà lo stigma tragico degli uomini che commetteranno l’errore irrimediabile di innamorarsi di lei) sarà destinata a diventare un’icona fra le maggiori dell’immaginario erotico mitteleuropeo, non casualmente recuperate da due artisti decisivi nelle arti rispettive, l’Alban Berg della nuova scena musicale austriaca, e G.W. Pabst che fece della bellissima Louise Brooks una star – silente e magnetica – del cinema mondiale.
I racconti apparvero nel 1906 e sono una dimostrazione - di qualità altalenante - della convinzione espressa dal battagliero scrittore di rompere gli schemi dell’ipocrita moralismo bacchettone della cadente borghesia coeva (quella che difatti, non potendone più di se stessa procederà di gran carriera verso la catastrofe della Grande Guerra); Wedekind – e tutto questo oggi, a mezzo secolo dall’invenzione del rock and roll e della beat generation, ai giovani che poco hanno studiato potrebbe apparire cosa da poco – dovette combattere contro la censura, fu ritenuto scandaloso per il suo invito a liberare la sessualità da secoli di oppressione innanzitutto linguistica. Perché l’aspetto interessante di questi racconti – a parte certa fulminante secchezza vitrea della prosa, la definitezza compiuta della frase, il ritmo accorto impresso dalla traduzione – è, più che la pirotecnica messinscena di fatti e gesti, che invece è presente in misura contenuta, la possibilità stessa dei “dire”, del “raccontare”. Si scopre così, leggendo l’introduzione, quanto, nonostante la forza nel condannare l’ipocrisia borghese e la virulenza apologetica di una morale che della carne sia rispettosa (sono del resto gli anni di Freud, Schnitzler, delle prime avanguardie che consapevolmente o no assumono la lezione nietzscheana della “grande ragione del corpo”), in fondo l’assunto di Wedekind sia ragionevole e persino didascalico: il suo è un invito a parlare del sesso e a non nasconderlo, a legittimarlo come ambito discorsivo fra altri, ad assecondare l’istinto ma prima ancora a concedergli lo spazio che gli compete nella narrazione delle vicende umane. Difatti, ogni racconto presenta un narratore che si rivolge a un ascoltatore: questo a mio avviso non è secondario, prima ancora del contenuto. Come insegna Leopardi, il primo problema è dire, non fare. Quindi il vero nemico è il rimosso della voce, scritta o orale: ché il sesso viene praticato ma nascosto, sembra esistere solo come una necessità biologica da tenere rigorosamente a porta chiusa, come il defecare. Da qui, l’enorme bagaglio di superstizioni, dice Wedekind, che lo accompagna. Le società che opprimono il desiderio prima di tutto opprimono la lingua e la chiudono dentro codici comunicativi che sono dispositivi di rimozione, di sanzione, di censura. Un enorme rimosso che umilia le relazioni umane - la barzelletta oscena rappresentando un insulto alla sessualità, la spia di una mancata salute al riguardo. Era un pedagogo illuminato, Wedekind, oggi possiamo dirlo.

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