30 set 2011

Ancora su Céline


Robert Poulet

Il mio amico Céline


copertina del libro
Robert Poulet era amico di Céline. Gli dedicò questo libro-intervista ormai più di cinquant’anni fa. Il mio amico Céline viene ora tradotto in italiano (a cura, pregevole, di Massimo Raffaeli) dopo una traduzione passata inosservata presso le marchigiane Sestante quasi venti anni fa.
La petit musique dello scrittore francese, fuori dalla portata di pseudolettori molto avventizi e diciamo pure improbabili è stata utilizzata in questi anni qui da noi per accampare dietro nomi di peso (che forse si vergognerebbero di essere usati da certe facce, alcune televisive e peraltro ancora chiamate “onorevoli”), carrettoni di porcate ideologiche (vale anche per Ezra Pound – e a prescindere dal giudizio di valore che ognuno di noi può darne: qui in causa è l’oggettiva complessità della loro sfida artistica a fronte di un’apologetica da ridere). Come se, ammesso che certa gente fosse sufficientemente alfabetizzata per tentare un approccio a quella scrittura, poi fosse immaginabile un rapporto fra il suo potere tutto economico e l’apocalittica orchestrazione di balordi, morti di fame, ultimi degli ultimi che suona nelle pagine di Céline. Non che si voglia tacere quello che non si può tacere, non lo fa del resto nemmeno Céline, scovato nel suo rifugio da uno scrittore minore assai, che a lui guarda come a una divinità, e che però sembra cogliere con apprezzabile sintesi stilistica stigma dell’uomo e dell’opera Si è ipotizzato per Céline – lo ha fatto anche recentemente La Porta – che il suo pessimismo fosse alla base delle scelte ignobili che gli procurarono il prolungato oblio che sappiamo, e – tutt’ora - una certa diffidenza da parte dei lettori “perbene”. Un po’ come accadde a Pirandello – forse solo più opportunista - che si limitò a iscriversi al fascio pur consegnando ai presenti e ai posteri un’idea del mondo e dell’arte non proprio compatibile con un pensiero ridotto a slogan com’era sostanzialmente quello fascista.Senza malignare ulteriormente, va ricordato che anche Robert Poulet poté vantare una medaglia all’osceno valore del collaborazionismo (ma lo stesso Poulet nega che Céline lo sia stato, e lo definisce piuttosto un anarchico, un individualista radicale), fatto sta che gli riuscì di avvicinare il grande scrittore (perché Céline lo è) nella periferia parigina di Meudon, dove viveva come un mezzo barbone, vestito di “una sudicia palandrana”, circondato da animali, forse non più profumato di loro, alle prese con serie difficoltà economiche, nonostante la pubblicazione dei suoi libri con Gallimard, che evita di mangiar carne e lascia solo qualche uovo alla fedele moglie che lo campa con le sue lezioni di ballo (donna scelta anche per la bellezza delle sue gambe). Ancora, che cerca di dar contro delle sue scelte politiche e letterarie, ricordando il desiderio di farla finita con quella scrittura falsa che a suo avviso dominava la letteratura francese (stiamo parlando di uno che trovava persino i suoi due capolavori, Morte a creditoViaggio al termine della notte, troppo eleganti, le frasi troppo ben scritte…). Céline che a dar retta al suo interlocutore, parla quasi come scrive, con “una voce da sonnambulo sveglio”, “il volto sempre più scavato, disfatto dalla sofferenza” (le poche ma belle fotografie presenti nel volume parlano chiaro). Insomma, un plebeo, un artista, un ribelle: sintetizzate questo materiale e avrete il Céline visto da Poulet: non molto originale, forse, ma davvero vicino a un’esperienza letteraria insidiosa, ambigua, inquietante ma di sicuro fra le più originali e disturbanti del Novecento.

25 set 2011

Will Self


sfortunata-estateNella bella traduzione di Olivia Crosio, il romanzo di Will Self, Una sfortunata mattina di mezza estate (Fanucci)si fa leggere con piacere. In un’isola-continente immaginaria ma non troppo – si penserebbe all’Australia – il turista americano Tom Brodzinsky, come il nostro indimenticabile Zeno Cosini (ricordato nella citazione iniziale del libro) si affanna a consumare l’eterna, reiterata ultima sigaretta della sua vita, e quando sembra avercela fatta, non sa che sta cacciandosi in un guaio che in realtà sarebbe più pertinente definire un incubo.


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21 set 2011

Salvatore Scibona


La fine

Editore 66thand2nd


copertina del libro
Storia di emigranti ma senza nessun tono popolare o strappalacrime questo La fine di Salvatore Scibona (scrittore italoamericano, nato a Cleveland, insignito nel 2010 del Guggenheim Fellowship e incluso dal «New Yorker» tra i 20 under 40, l’elenco dei venti migliori scrittori americani sotto i quarant’anni.) Uscito in America nel 2008, il romanzo sembra scritto piuttosto da un allievo di Don De Lillo ma, come dire, più figurativo. Racconta le vicende di una comunità di italo-americani che si barcamena dalle parti di Elephant Park, Ohio, nel bel mezzo del secolo ventesimo, secolo di grandi promesse per tutti e di immani tragedie per molti. Attraverso una storia che adombra facendolo crescere sottotraccia e lentamente un crimine nascosto, si squaderna davanti agli occhi del lettore un paesaggio di sentimenti acuti, di tormenti, di vite fatte di sangue e fatica ma che non si esauriscono in un esito materiale pure e semplice.
Qui non è questione di mera sopravvivenza secondo canoniche vulgate di poveracci in trasferta permanente; nel romanzo di Scibona non bastano le sconfitte o le vittorie a esaurire il significato di una vita o di una comunità. Dio, la Vergine, vedove affrante, ragazzini problematici, uomini sfigati; e poi il sudore, lo spettro della fame, il Niagara o altre meraviglie del mondo sognate in cartolina.
Immaginario risaputo ma qui rivisto come mero materiale di partenza per una destinazione d’uso inaspettata. La questione dirimente dell’identità di questa gente che cerca di mantenersi salda fuori dai propri confini e teme, a ragione, di non farcela, investe un piano più sottile e più alto, che è quello del “senso”: hanno bisogno, questi personaggi, di trovare una fine ma anche un fine probabilmente, un significato che dia ragione della loro esistenza. Scibona sembra incline tanto a sondare (con una sensibilità iperestesica, eccellente capacità di visione delle cose e dei pensieri) la vita interiore di chi anima le sue storie quanto a trasferirvi parte dei suoi tormenti, con il che emerge forse il punto di crisi di questa scrittura di indubbia sagacia: l’eccesso di cognizione intellettuale di personaggi che non sembrerebbero disporre di certi strumenti, specie linguistici, e che finiscono con il pensare una lingua che è quella del narratore. Un rischio che è parte dell’avventura intrapresa da Scibona.
La narrazione, consapevole della trama non lineare del tempo, all’inizio incentrata su Rocco, panettiere dalla vita tribolata (il primo capitolo, tutto dedicato a lui, è in sé un romanzo in miniatura) pian piano coinvolge altri personaggi e li avvita in un plot fatto di scarti temporali ripetuti, di digressioni, di avvicinamenti graduali. La storia, fra aborti clandestini e religiosità inquieta, figli di italiani che muoiono “da americani” nella guerra di Corea e gioiellieri sinistri, mescola in un plot che sembra muoversi per cerchi concentrici vicende di gente che ha bisogno di sentirsi a suo agio con il mondo che li ospita e dal quale non torneranno. Ma non è per niente facile, per quanti sforzi facciano di vivere nel presente.
Scibona sembra conoscere bene il mondo che racconta, ha per così dire studiato la materia, ha soggiornato in Italia. A volte scrive “troppo bene” e lascia perplessi il fatto che trasferisca con eccessiva disinvoltura la sua sintassi a quella dei personaggi, almeno per ciò che attiene ai loro pensieri. I dialoghi sono più misurati, non privi di acutezze. Il racconto a volte rallenta, sembra quasi avvitarsi su se stesso per poi aprirsi in accensioni luminose; ma chiama a sé lettori pazienti, di quelli che si innamorano di una prosa (almeno quella del traduttore! - Beniamino Ambrosi), di uno sguardo più ancora che di una trama: lettori sedotti da una specie di musica delle connessioni tra fatti, idee ed emozioni. Esordio certo molto interessante, La fine si è guadagnato la finale al National Book Award, e ha vinto il Young Lions Fiction Award, il Whiting Writers’ Award e il Norman Mailer Cape Cod Award for Exceptional Writing.

20 set 2011

poi devo dire

 'sto schifo qua sotto m'insozza il mio bellissimo blog, ma qualcuno il lavoro sporco deve pur farlo - i gagà per favore: aria

Perché nessuno fa niente da solo - per es. sotto minzolini


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19 set 2011

THE PARIS REVIEW – INTERVISTE VOL 3


su lankelot del buon Franchi

Il terzo volume di interviste dalla prestigiosa The Paris Review (edito da Fandango) a scrittori di primo piano della scena letteraria mondiale del secolo scorso - ma qualcuno di loro è ancora in attività – si presenta come un volume davvero succulento. Come ricorda la scrittrice canadese Margaret Atwood, responsabile dell’introduzione, la rivista “si propose fin da subito come la dimora degli scrittori di valore”, anche se, ai suoi inizi, negli anni Cinquanta “gli scrittori venivano considerati artisti marginali, ed erano rispettati solo se ce l’avevano fatta dal punto di vista economico”.
Non che oggi le cose siano cambiate, non so negli USA, di certo non da noi (magari  peggiorate). Le interviste qui presenti hanno un tratto comune che ne costituisce anche la peculiarità; magari l’occasione è “informale”, “i partecipanti magari mangiano e bevono, si spazientiscono”, ma la conversazione è sempre incentrata sul loro essere scrittori. E dunque, niente discorsi vaghi o solenni sul mondo, opinioni campate per aria su argomenti che non conoscono, ma piuttosto ragionamenti intorno a: tecniche, metodi, senso della letteratura. E vita personale che si intreccia con il lavoro (un po’ come succede nel libro di Ben Ratliff, Come si ascolta il jazz, pubblicato l’anno scorso da minimum fax, alle prese con una dozzina di musicisti).
In questo terzo volume della Paris Review, sono presenti anche poeti e saggisti, non solo romanzieri. E non solo americani (Norman Mailer, a proposito: “L'America? "Un europeo sa esattamente cosa s'intende per cultura. Ce l'hanno nella loro architettura e nelle curve delle vie, noi abbiamo stradoni dritti perché è il modo più veloce per arrivare al mercato"). Da Chinua Achebe a Isak Dinesen, meglio conosciuta come Karen Blixen, da Ted Hughes a Salman Rushdie, il materiale è ricco, interessantissimo, prezioso per scrittori e lettori forti. Ci sono molte sorprese e qualche cosa nota. Le idiosincrasie di George Simenon, per esempio. Che non sopporta “la frase che è lì solo per la frase”. O gli aggettivi e gli avverbi di troppo: nemmeno a parlarne. Sapevamo della costruzione dei suoi romanzi a partire da elenchi telefonici e piantine della città, dai nomi dei personaggi e dalla loro età. E sapevamo che la revisione di un romanzo per lui significava tagliarlo il più possibile. Che “scrivere è una vocazione all’infelicità”. Sapevamo della vita monacale durante le due settimane (sole!!) necessarie a scrivere un romanzo, con tanto di visita del medico alla fine per controllare lo stato di salute. Ovvia poi la considerazione che la letteratura oggi (ma ormai è mezzo secolo fa) non possa dare una visione confortante dell’umanità, ma, anche questo è noto, le convinzioni di Simenon, che non era un teorico, erano poche ma solide.
Più sorprendente, a maggior ragione di questi tempi in cui per la stampa italiana esistono solo scrittori grandi o falliti, che Ralph Ellison, l’autore de L’uomo invisibile, si schermisse per aver vinto nel 1953 il National Book Award, visto e considerato che riteneva il suo solo un “tentativo di grande romanzo”. Capace di confessare, prima e al netto delle particolari difficoltà dovute al suo essere nero, “il sospetto che tutte le sofferenze insite nel processo di scrittura abbiano origine dalla smodata voglia che lo scrittore ha di essere apprezzato”.
Tutt’altro tipo Evelyn Waugh, che ostenta un surcilioso disprezzo per la critica, e per Faulkner – evidentemente fuori della sua portata. Martin Amis, uno dei migliori scrittori viventi, seppure discontinuo come testimonia il non riuscitissimo ultimo romanzo tradotto da Einaudi La vedova incinta, è peraltro un esempio inconsueto di figlio che invece di essere schiacciato dalla presenza ingombrante del padre (Kingsley Amis ha un suo ruolo nella storia della letteratura inglese del secolo passato), lo ha persino superato. E Martin rivela che l’affare sia stato un problema più per Kingsley che per lui – aggiungendo che di solito, di fronte a un giovane “emergente”, gli scrittori, lui compreso, facilmente provano “un certo risentimento” a priori. La sensazione che ti stiano scalzando, che magari abbiano da dire sullo stato delle cose, sul mondo contemporaneo, più e meglio di te, procura un certo fastidio. La trama per lui conta solo nei gialli, la scrittura è tutto (“la struttura della frase inglese”), ma non meno interessanti sono spesso i suoi personaggi (divertente la notazione che fa a proposito dei suoi lettori, quando presentando un suo libro assieme a quello di un altro scrittore, riconosce nella fila che si avvicina a lui individui un po’ loschi, “dallo sguardo allucinato” – come sono spesso i suoi personaggi, appunto).  Un sostanziale disinteresse per la trama lo dichiara anche John Cheever (del quale la stessa Fandango ha tradotto diversi libri negli ultimi anni): “La trama implica un sacco di stronzate. È un tentativo calcolato di mantenere l’interesse del lettore sacrificando il convincimento morale”. Il che, aggiunge l’autore del Falconer, non vuole dire voler esser noiosi o fregarsene del lettore: consiglio di chi scrive, se non lo avete ancora fatto, leggetelo, e anche queste interviste: appartengono al genere delle cose essenziali – metteteci dentro anche Carver, Pinter, Joyce Carol Oates e ne avrete un’idea.

14 set 2011

il demone di Andrea Tarabbia

Il demone a Beslan è un romanzo ispirato ai fatti tragici di Beslan, uno di quei libri che fanno storcere il muso ai non amanti della letteratura che non sia quella rassicurante di chi la confonde con la distribuzione certa delle ragioni e dei torti. Va a suo merito invece di non essere nemmeno una di quelle operine che una lingua, un pensiero (mancato) ancora definiscono “provocatorie” e che trovano comodo accampamento nella fazione avversa alla prima, quella di chi – ancora, pure lì – se la mena con l’ostentazione della scorrettezza 
politica.

8 set 2011

Architettura e potere

pubblicato sulla bella rivista di Saul Stucchi alibionline.it

Volete una nozione meno astratta e concettosa e viceversa palmare, tangibile fino alla brutalità di cosa intendesse Nietzsche con l’espressione “volontà di potenza”? Non è difficilissimo, basta guardarsi intorno. Dejan Sudjic, direttore del Design Museum di Londra e autore di Architettura e Potere (sottotitolo: Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo), il grande tedesco non lo nomina mai - in fondo sarebbe banale, perché l’architettura intorno a noi esibisce il concetto con l’evidenza dei fatti (delle cose che essa costruisce). Dice quella potenza e la esercita nello stesso momento. Perché il fatto architettonico, ridotto a questa dimensione, non è un gesto, un’azione a tempo determinato: coincide (si incide ne) con l’occupazione di un territorio. Per chi lo attraversa, ancora più per chi lo abita e spesso lo subisce, non è prescindibile: che si tratti di un monumento celebrativo e della corte del sultano, essi sono lì. Costituiscono la parte antropica dell’ambiente in cui viviamo – scusate se è poco.

Basterebbe questo, al netto della simbolica e della significazione peculiare di una scelta o dell’altra, a fare dell’architettura una disciplina sui generis, fuori dal repertorio complessivo delle arti disinteressate e gratuite (si fa per dire  - non che il discorso sia così semplice, nessuno crede, specie i potenti che l’hanno in dispregio, che una poesia sia di sicuro innocua, altrimenti non si spiegherebbe una storia secolare di persecuzioni e censure ai danni di scrittori, musicisti, persino pittori – i pregiudizi di Sant’Anselmo sulla pittura di paesaggio erano tali da fargli augurare la dannazione eterna ai peraltro inesistenti artisti che volessero cimentarsi con l’impresa).L’architettura, cui è proprio il particolare non indifferente di destinarsi nella maggior parte dei casi a spazio abitabile, per esistere non può fare a meno dei mezzi materiali. L’inevitabile rapporto con il potere che necessariamente serve a trovarli determina un’inclinazione ricorrente pressoché costitutiva per la patologia. Che l’ego si scateni, è nelle cose. Ma se l’architetto non scherza, il potente che lo mette al lavoro finisce per delirare come un dio in terra: porzioni di essa sono a sua completa disposizione, la volontà di disegnarle a proprio piacimento ha agio di manifestarsi con evidenza senza confronti. Il libro di Sudjic descrive bene questa storia, ne racconta esempi più o meno significativi lungo il Novecento. Per capire quanto sia pervasivo il suo discorso, non c’è bisogno di andare alle manifestazioni clamorose di Mao o Saddam Hussein, né alle ovvie iscrizioni megalomani dei vari Mussolini, Stalin, Hitler (sul terzo, le memorie dell’architetto Albert Speer rappresentano ancora una lettura fondamentale). Più interessante, è individuarne  pagine meno eclatanti, intuibili ma meno sfacciatamente esibite, così com’è nelle democrazie occidentali, dai casi di Chirac a Tony Blair, decisi comunque a marcare il territorio a loro modo, a progetti meno spettacolari, meno clamorosi, apparentemente laterali, dalle biblioteche alle reception degli alberghi, dai musei alle Esposizioni di fiere temporanee (che in luogo di contenere oggetti da esporre sono essi stessiforme che chiedono di essere guardate, di significare). Perché il potere suppone di utilizzare gli architetti più di quanto non valga il contrario – esso può, appunto. Decide come dobbiamo regolare il nostro rapporto con gli spazi, cosa dobbiamo guardare, come e dove possiamo camminare, se sentirci a nostro agio o subire l’oltranza monumentale di chi edificando una struttura vi proietta un segno preciso del suo dominio.Michele Lupo

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