31 ott 2011

tratto dal racconto "Cimento del tempo libero"


L'appuntamento per i principianti è per il tardo pomeriggio, non al magazzino ma direttamente nella sede del corso. Al telefono, il giorno prima, non ha saputo evitare un tono insofferente: un lavoro in cui il solo guadagno sarebbe quello sulle provvigioni delle vendite non è un lavoro, non per lui. E sulla ditta ha sentito strane storie. Ma il sollecito di pagamento della banca è lì sul tavolo. Matteo non ha scelta.
Arriva in via Bernazzoni che le ombre stanno già dissolvendosi in un alone sempre più compatto e i chiaroscuri si diradano in un cielo definitivamente nero. Dentro, gli uffici sono illuminati da una luce fredda, violacea. La scritta SPECIAL LIFE campeggia ovunque.
Lo fanno sedere accanto a una dozzina di persone; le sedie sono sparse di fronte al manager che ha iniziato da poco la lezione.
Non è lui.
– Innanzitutto, – sta dicendo l'uomo, seduto su una specie di cattedra, con una gamba penzolante – bisogna imparare il controllo dei muscoli facciali. Azzerare l'emotività: ciò che deve trapelare dai movimenti del volto dovete deciderlo voi.
Matteo cerca di non distrarsi, di non pensare alla faccia liscia, agli occhi piccoli dell’uomo.
– La nostra è una verità indiscutibile, – dice il manager – un sapere impossibile da confutare. Per questo il sorriso deve essere discreto ma energico. SPECIAL LIFE sarà scritto sulle vostre facce, come un benessere al quale si potrà soltanto obbedire – qui l’uomo fa una pausa, allungandosi la manica della camicia bianca sotto quella della giacca. Matteo butta un’occhiata alla sua pancia, un ammasso di adipe fuori controllo, un ingranaggio zeppo di crepe falle errori.
– Punto secondo: ricordate che l'altro è un cliente anche quando non sa di esserlo, e che il bravo venditore è colui che ce lo fa diventare. – Si interrompe di nuovo. Ostenta sicurezza,  è padrone di sé, non c’è dubbio. – Sta a voi determinare i suoi bisogni, e… attenzione alle mani sudate! – accenna un mezzo sorriso. – Danno fastidio in sé e sono un bruttissimo segno.
Matteo percepisce un lavorio arruffato dentro le budella. Chissà se può filarsela attraverso la grande finestra vicina. Attraverso la protezione acustica dei doppi vetri, i larghi viali del quartiere sembrano silenziosi anche all’ora di punta. Per un istante insegue le luci trafitte nei lampioni a un ritmo di colori alternati, gialli blu viola. Quando le macchine rallentano, lo sfondo si arrossa.
– Se non lo sa, tu sei lì apposta per farglielo capire – l’uomo fissa improvvisamente Matteo negli occhi. – Perché tu non stai semplicemente vendendogli qualcosa, tu gli stai cambiando la vita. Per questo, i gesti debbono essere precisi.
Matteo fa finta di niente – fanno tutti finta di niente. Ma l’esibizione della sua pancia lo fa sentire colpevole. Le puzze, chissà perché, le si associano più facilmente ai ciccioni.
– Punto terzo: dovrete essere sicuri di voi stessi, sgravarvi dei pesi che vi portate dentro; noi siamo qui apposta. Alcuni forse non sosterranno la tensione del training, è possibile, ma chi dovesse superare questa fase, si troverà di fronte un nuovo, straordinario orizzonte – il manager si accende una sigaretta e lascia trascorrere alcuni interminabili secondi in silenzio, seminando lo sguardo qua e là fra i disoccupati dinanzi a lui. A Matteo, che non ha mai fumato in vita sua, viene voglia di ficcarsi una sigaretta fra le labbra, inalare una cosa qualsiasi.
– Fisserete lo sguardo sugli occhi tremolanti del vostro cliente – l’uomo strizza gli occhi per un istante, compiaciuto dell’exploit letterario. – Dovrete essere bravi a smascherare chi tenta di difendersi con un atteggiamento che vorrebbe sembrare distaccato e invece è goffo, credetemi: puerile. Perché li conosco, i clienti, e va da sé che qualsiasi estraneo che voi incrociate per strada è un potenziale cliente. Imparerete che alcuni di loro simulano uno scetticismo che non possono permettersi; voi sarete lì apposta, perché sapete che il benessere che ostentano è illusorio: è per questo che abbiamo creato SPECIAL LIFE, con i suoi prodotti meravigliosi, per la salute fisica ma anche per quella della mente.
Si interrompe. Fa una lunga tirata e poi di nuovo gli spara addosso il suo sguardo acuminato. – Dovrete farlo sentire a disagio, il cliente, e anche in colpa, possibilmente: in colpa per essere stato così sbadato, così vicino a fare una figura da cretino, dovrebbe arrossire per essersi separato dal mondo che conta, per aver isolato la famiglia e allontanato i figli dalla modernità e dal benessere – fa ancora un altro tiro. – Solo allora, quando si sentirà soffocare dal disagio, firmerà il contratto che voi gli avrete steso sul tavolo come una possibilità di salvezza.
Quando riempie il bicchiere di acqua minerale, sembra che vi si rifranga una specie di melodia orientale, il suono di una glassarmonica, una bolla pronta a schiudersi sulla magia di quella parola: salvezza. – Se poi trovate un individuo che rifiuta di comunicare… bene, sappiate che può capitare, talvolta. Inutile nasconderlo… – altro tiro, altra pausa. – Si tratta di persone irresponsabili. Una minoranza. Gente che pone domande prive di risposte possibili. Disadattati. Perché deve esserci sempre una risposta a una domanda plausibile. Se non c'è, vuol dire che la domanda è sbagliata. Tenetelo a mente: una domanda imprevista ha sempre un difetto all'origine. Se non funziona neanche quando allungate sul banco il campione dei fluidi per il bagno rilassante significa che queste persone non sono più in grado di allacciare un rapporto armonioso con il prossimo – spegne la sigaretta. – Al cliente ottuso invece, che vorrebbe sapere in cosa consiste il beneficio di questi prodotti, il bravo venditore non è tenuto a rispondere subito: in prima battuta mostrerà un sorriso folgorante che costituirà esso stesso la risposta. Sta lì il beneficio, in quella disinvolta sicurezza di sé. Non c'è altro motivo per cui qualcuno debba comprare qualcosa, di cui prima non aveva avvertito la necessità, se non la sua insicurezza, il vuoto in cui brancola come un cane randagio… – a questo punto, il silenzio con cui lo ascoltano è teso come un arco.
– Naturalmente, questa freddezza dovrà essere temperata dalla giusta carica di simpatia. Dovrete sembrare molto disponibili; positivi e tranquilli – pausa. – Oh, e un'altra cosa: preoccupatevi di essere ripetitivi, insistete sugli stessi argomenti. La gente è sensibile a questo. Anche alla ripetizione del suo nome. Ripetete spesso signor Rossi, vorrei dirle signor Rossi o ma certo signor Rossi. Si sentono lusingati… – lascia cadere il discorso, almeno a Matteo così sembra (lui ai cognomi aveva sempre pensato in modo diverso).
– Infine – ed è l’unica volta in cui dà l’impressione di lasciarsi andare – vi pare che anche la ragazza più carina del mondo non nasconda da qualche parte scampoli di carne malandata, inestetismi imbarazzanti, punti deboli della sua personalità?
Nessuno risponde. Qualcuno fa il tipico sorriso di quando ci si chiede se è il caso di sorridere.
– Non voglio dire che questo sia un lavoro facile. Paradossalmente, lo capiranno meglio coloro che riusciranno ad andare avanti. Tuttavia, fallire in questo lavoro è un brutto segno di mancanza di personalità, di autorevolezza, di capacità comunicativa. È un campanello d'allarme! – pausa. – Perdonate la mia franchezza – intreccia le dita – ma, come dire... sareste persone che le cose possono soltanto comprarle – ride. Una risatina secca, bruciata in un attimo. – D'altronde, sono sicuro che qui siamo fra individui capaci, responsabili, vincenti – termina, con lo stesso sorriso che Matteo immagina di dover acquisire. – Per oggi è tutto.


scritto nel 1999, pubblicato prima in rivista (tabula rasa n 6) poi nella raccolta "I fuoriusciti" - 2010

30 ott 2011

Il nulla che avanza

e guardatevi il video del baricco da renzi: il nulla, il facile, 
il gradevole nulla: quello che è sempre stato: il nulla del 
Partito Deprimente in versione Feltrinelli, sciccoso, vacuo, finto

26 ott 2011

Alexander Maksik


 
da Lankelot

Sembrerebbe un tipo alla Keating, quello del molto sopravvalutato "L’attimo fuggente", il professore (principale protagonista) del romanzo d’esordio dell’americano di origini russe Alexander Maksik, Non ti meriti nulla. Le assonanze col personaggio di Robin Williams in effetti non mancano: l’ascendenza dell’insegnante di letteratura sui ragazzi, l’ostentazione di un certo spirito libertario, la democratizzazione del punto di vista sollecitata dall’invito al dialogo, al confronto. Ma questo Silver è una figura ben più complessa; non gli passa minimamente per la testa di abdicare alla lettura formale dei testi, benché il loro significato per la vita sia in fondo l’essenziale delle stesse ragioni letterarie, non pensa di cavarsela con due versi enfatici. Ancora, invita alla complessità concettuale non meno di quanto invochi le ragione del cuore, lavora sulla lettura intensa di romanzi impegnativi, affrontati nel corpore vili delle contraddizioni, dei personaggi e dei loro dialoghi, delle svolte nevralgiche in cui si snodano le scelte esistenziali. Ed è proprio questo la premessa che apre al cuore delle sue lezioni (e del libro): il passaggio dal grado zero di natura (ché l’uomo, insegna Sartre, è privo di essenza, non è un ente costruito in funzione di uno scopo) all’esistenza, che è ciò che lo definisce, ossia l’azione o la sua mancanza, la responsabilità della scelta - il che chiama in causa peraltro il senso ultimo dell’insegnamento, la coerenza del professore con ciò che “predica”.
Il luogo che in cui tendono ad accentrarsi le storie è l’”International School Of France” (una scuola per rampolli di famiglie più che agiate, destinate per un motivo o l’altro a fermarsi a Parigi per qualche tempo). Merito del professore (e di Maksik) è caricare di tensione le sue lezioni. Silver non condivide con il famoso Keating quel troppo di ingenuità che lo rendeva – almeno agli occhi di scrive – stucchevole. Silver conosce il suo mestiere come nessun altro, ci sa fare sul serio. Ha talento, competenze, passione, dispone del carisma che una sciagurata ideologia qui da noi ha guardato con sospetto e che costituisce un aspetto non esornativo del mestiere (peraltro nei romanzi, gli insegnanti, si sa, quando non sono sfigaterrimi – quasi sempre, specie in Italia, dove gli scrittori non si rendono conto di aver introiettato lo stesso immaginario economico che dicono di biasimare – appaiono fascinosi). “Se sei molle all’inizio affogherai” dice Silver. L’insegnamento è anche tecnica teatrale, la cattedra condivide con la scena la necessità di calibrare i toni, di disciplinare l’actio nell’orchestrazione retorica, misurare gesti e regolare gli sguardi. “Così li incanti mostrandoti duro, fissando dritto negli occhi quelli che chiacchierano, stroncando chi ti sfida. Gli dai responsabilità e libertà. Gli mostri che ti importa, che ami quello che fai”. Sia chiaro, in questa recita però ne va della vita. Non solo perché Silver crede in quello che fa. Fra studenti della più svariata provenienza (compreso il musulmano Abdul che non manda giù l’insinuazione nemmeno troppo sottile  che dio non esista e che procura per questo frizioni destinate a esplodere fra Silver e la dirigenza, interessata ovviamente solo alle rette degli studenti), svolgono un ruolo decisivo Gilad e Marie. I due ragazzi difatti, e non sono i soli, se ne innamorano. Gilad, di suo timidissimo, incerto, fragile, figlio di una coppia alla deriva, di un padre violento che non sopporta la sua delicatezza, accetta l’idea che nella fascinazione che subisce possa insinuarsi anche una componente erotica, mentre Marie (una studentessa della scuola che però non frequenta le lezioni di Silver) si ritrova fra le sua braccia per una manovra ordita dall’amica Ariel –, controversa, disinvolta ma tutt’altro che pacificata ragazza.
Ora, il coraggio della scelta mette alla prova lui per primo, il professore, incerto se lasciarsi andare all’attrazione tutta fisica per Marie – in realtà è lei che lo ha sedotto. Ma la tenuta che mette davvero in gioco il valore del suo insegnamento, il patto fiduciario che li lega ai ragazzi (in definitiva, la sua stessa persona) rischia di crollare quando durante una grande manifestazione, si mostra inerte rispetto alla violenza di un ragazzo delle banlieues. La passione che ha sempre tenuto al centro delle sue lezioni, di cui si è fatto mentore, si esaurisce dopo l’invito a placare le anime fra due fazioni, ma di fronte all’esaltato criminale che lo aggredisce e gli sputa in faccia, il professore non reagisce. E il fatto non passa inosservato.
Il romanzo, che  ha trovato un editor convinto in Alice Sebold, si costruisce alternando le tre voci, come a strutturare nella sua forma lo spirito “plurale” che tematizza. Le vicende sono viste e raccontate dai rispettivi punti di vista (con una lingua che, si evince dalla traduzione, cerca di imitare in modo plausibile lessico e sintassi dei tre, compreso il fastidioso birignao dei ragazzi “voglio dire, “tipo”, “come butta”…). Tutto ciò conferisce un aspetto prismatico alla narrazione e aggiunge tensione e interesse a una storia che non teme di prendere di petto questioni centrali della vita umana: amore, coraggio, responsabilità, senso stesso della letteratura. Un bell’esordio.



22 ott 2011


yellowmedicineYellow Medicine“ è il quarto romanzo
di Anthony Neil Smith
 e il primo tradotto in italiano (Meridiano Zero
, traduzione di Luca Conti). Hard-boiled e umor nero sembrano le sue caratteristiche salienti.
Chi scrive ha un debole per certe narrazioni in prima persona, quelle lavorate da ceffi fittizi quanto si vuole ma ambigui, paraculi e perdenti, spiritosi il giusto e scalcagnati – niente di insolito, anzi, ma quando il racconto è tenuto dentro una voce giusta è di solito un bel leggere. Qui siamo nel Minnesota e Billy Lafitte, il protagonista, fa i conti con i guai in cui egli stesso si è cacciato. Che iniziano quando decide di interpretare a modo suo – un modo molto personale – la distribuzione del pane e dei pesci provocata dall’uragano Katrina. Che vadano pure all’assalto di magazzini, lui ci tira su il suo. Perché è uno di quelli che cerca di approfittare della situazione, considerando – non del tutto a torto – che in giro c’è gente peggiore di lui. 

Amori e malintesi


Quello di  Ada Leverson (Londra 1862-1933) è un nome che ai più non dirà 
nulla. Non è una scrittrice che possa aspirare a un canone difatti, ma 
gradevole alla lettura sì. Il romanzo Amori e malintesi (1908 - Astoria 
Edizioni, trad. di Marcella Bonsanti), storia di comiche afflizioni coniugali 
e sentimentali, è un buon esempio di letteratura leggera ma non corriva, 
dai tratti ironici e acuti, nello spirito dell’editrice milanese (libri di 
elegante confezione e gusto per l’umorismo intelligente – 
da consigliare alle scrittrici italiane).


21 ott 2011

Yehoshua Kenaz

appartamento_con_ingresso_nel_cortileNon è uno scrittore molto noto in Italia, il settantaquattrenne israeliano Yehoshua Kenaz, autore dei racconti contenuti in “Appartamento con ingresso nel cortile”, tradotto come altri suoi libri da Giuntina. Certo molto meno noto della classica triade Oz, Grossmann, Yehoshua. Non lo traduce del resto un colosso editoriale, ed è legato a una percezione sbilanciata di scrittore non modernissimo perché narratore più di caratteri che di storie, più di riflessioni interiori che di azione.




continua http://www.ilrecensore.com/wp2/2011/10/lisraele-di-kenaz/

16 ott 2011

Italia felix

Secondo Kafka, dopo una rivoluzione restava solo l'odore del fumo.
Di sicuro, in Italia, dopo una manifestazione resta solo la puzza dell'alito di
Cicchitto e Gasparri.

12 ott 2011

Io i trentenni italiani non li capisco


Paolo Di Paolo

Dove eravate tutti


copertina del libro
Moralismo temperato ma insistito di un giovane vago, uno spillato da questi anni berlusconiani, che avvia una cauta ma preoccupata, non sempre convinta (parrebbe) indagine sull’identità di suo padre (dei padri), un insegnante appena andato in pensione, che invece di godersela pare invischiarsi in un’azione assurda: investire con la sua auto un ex studente. Spinto da un rancore incistato come una seconda pelle (gli scrittori italiani si sono convinti che gli insegnanti siano tutti così: mah…), approfitta di un incontro (casuale?) con il teppistello e prova a farlo fuori, così per pareggiare il peso di una rottura di scatole pluriennale.La notizia mette a soqquadro la famiglia, fa emergere contrasti prima tenuti a bada con la solita, solida armatura di un quotidiano ipocrita, livoroso ma con giudizio: più che berlusconiano - come vorrebbe il progetto del libro, teso parrebbe a verificare nella cifra domestica l’invasione di un modello di potere e di immaginario oramai ventennale -, semplicemente democristiano.Il giovane narratore Italo Tramontana, un tipo si direbbe non sveglissimo, imbranato con le ragazze (le definisce Sbagliate, e le pagine dedicate alle loro chiacchiere risapute, sono le più corrive), ha una vaga idea di scrivere una tesi (altrettanto vaga) sugli anni berlusconiani, lamenta che i padri non gli abbiano consegnato altra visione del mondo, guarda con sospetto al mestiere del padre vero, percepisce il disprezzo che gli gira intorno in quanto insegnante (l’immagine ha tratti un po’ stereotipi: bisognerebbe capire una volta per tutte che non tutti gli insegnanti sono o si sentono o vengono percepiti così sfigati, malmessi, malvestiti etc). Così non può non distaccarsene, non può non misurare la povertà esistenziale che si scrive nella stessa casa in cui vive (“I frigoriferi non mentono mai”…) una volta che la madre se n’è andata a Berlino. Tutto concorre a far emergere un’immagine tristanzuola di quest’uomo, per giunta definito dal narratore come “berlusconiano” perché individualista e autoritario (sembra un po’ poco…). Il suo patetismo è aggravato dall’immancabile libro nel cassetto da pubblicare, e dalla presenza del solito piccolo, infimo e infame editore che cerca di approfittarne. Per giunta, la carogna che ha forse cercato deliberatamente di investire, l’anno prima aveva lasciato un biglietto nella cassetta della posta di casa nel quale era scritto che il professore s’era portato a letto l’insegnante di sostegno. La cosa peggiore di tutte è che il teppistello finisce per essere attraente per la figlia dell’ex insegnante, sorella del narratore.Fortunatamente, confusamente, questi avrà la possibilità di scoprire altre cose, altri precedenti di segno diverso, e recuperare l’immagine del padre a un minimo di dignità. 
Di Paolo sembra cercare una lingua bianca, di pura comunicazione, in cui anche il dolore rifugge, come un pianoforte suonato con la sordina, qualsiasi acuto; travagli e inquietudini sentimentali sono anch’essi rattenuti in una misura di compostezza, di timidezza sostanziale che forse gli è propria, forse è generazionale ma sembra per contrappasso fornire una spia anche di un’inerzia che, questa sì, dice molto di questi anni. Gli inserti fotografici, le immagini di alcune prime pagine dei giornali e i loro richiami allo sfascio politico dovrebbero costituire tracce di passaggi d’epoca buone a ricostruirla, in vista di una tesi, ma resta l’impressione di uno sforzo buono più che altro a fabbricare un romanzo un po’ blando.

11 ott 2011

Edmund De Waal




Uno non se lo immagina– o forse sì? –che una lezione di stile, di sguardo, di cosa possa essere oggi letteratura, possa dargliela non uno scrittore, ma un tizio che è un professionista sì, ma d’altro - di ceramica nel caso, e persino un talento, pare, nel suo mestiere.
Invece questo è quello che accade con “Un’eredità di avorio e ambra“, libro di superba fattura targato Bollati Boringhieri (l’autore si chiama Edmund De Waal, è inglese), di genere inclassificabile, che l’autore chiarisce subito di non intendere come una saga (il cui codice spesso convenzionale e consolatorio rifiuta a priori: “non ho voglia di lasciarmi invischiare dalle dinamiche della saga d’altri tempi e scrivere un’elegia della perdita in salsa mitteleuropea”), che magari ha qualcosa del memoir, e tratti superficialmente imparentabili col romanzo storico o di viaggio e quant’altro – e invece le lambisce tutte queste forme oltrepassandole, come vacue definizioni, impegnato com’è a definirle lui, il libro, le cose, a renderle di geometrica, plastica, luminescente evidenza (come il romanzo italiano, per dire, ormai fa sempre più raramente).


9 ott 2011

L'orca nella rete

MICHELE LUPO: cumshort su ibs: http://www.ibs.it/ebook/zzz1k1456/cumshort-racconti-erotici/9788896989128.html

Triangolo di lettere


NIETZSCHE, VON SALOMÉ, RÉE 



scritto per lankelot, l'immenso archivio letterario diretto da Gianfranco Franchi
Banale quanto si vuole ma tant’è, succede anche ai grandi uomini di finire intrappolati nelle spirali della passione amorosa e perdere quei tratti – è proprio il caso di dire qui – superomistici che ne hanno caratterizzato se non l’autentica biografia almeno l’ambizione e la pubblica rappresentazione, tanto più facendo scalpore  o suscitando sarcastiche risa proprio per la distanza fra le altezze siderali dei propositi e gli abissi in cui sono crollati. Perciò appassiona l’affaire Nietzsche-Lou Salomé, per quanto “intellettuale” si voglia definire questo amore, per di più “aggravato” dalla presenza di un terzo incomodo che risponde al nome di Paul Rée. 
Il volume Adelphi Triangolo di lettere, ora in edizione economica, ne dà esaustiva contezza attraverso una mole impressionante di lettere passate dagli uni all’altra, lafemme fatale che disorienta il filosofo più citato-amato-odiato degli ultimi due secoli, uomo che della tragedia del divenire si fece cantore e che poteva soccombere, banale quanto si vuole, solo in presenza di una donna non comune, altera e forte più di quanto lo stesso Nietzsche potesse augurarsi, evidentemente. Impressiona vederlo scivolare verso quel tono compiacente, a tratti arrendevole, del ragazzo innamorato – e non lo era già più, un ragazzo, quando incontrò Lou nel 1882 -, entusiasmarsi per insperate e forse non proprio solide affinità elettive che credette di trovare in lei. Peraltro, lui era Nietzsche, e non dovette essere semplice mettersi in gioco tenendo conto anche del povero Rée, fautore di una psicologia positivistica che procurò un iniziale interesse al grande filosofo ma forse nessun ricordo avrebbe lasciato di sé, fuori di questa vicenda, ma che poteva vantare sufficienti atout se non intellettuali come pretendeva, umani molto umani, per non dispiacere alla nobile russa. Donna straordinariamente indipendente, si dava il caso, e alla prova dei fatti, con tanti bei saluti ai migliori e più eroici propositi dell’allergica riluttanza di Nietzsche ai legami duraturi e formalizzati una volta per tutte. Confessare invece come fa il filosofo decisivo della storia d’Occidente (“Perché io sono un destino”, scriveva in Ecce Homo, e nessuno potrebbe dargli torto) che la sua è una ferita amarissima, rimproverare alla donna la sua freddezza, adombrarne un’insufficienza morale e filosofica insieme, lascia sgomenti. Come la delusione di non essere riuscito a essere sino in fondo il mistagogo che avrebbe voluto – Lou era pur sempre una donna, ossia un esemplare di quel genere umano che a suo avviso favoriva nascita e consolidamento delle religioni, per intrinseca debolezza, va da sé.
E invece. Pure alla luce degli scritti che la donna successivamente dedicherà a Nietzsche, sembra che l’intuito l’avesse aiutata a cogliere in lui il carattere frammentario, temporale, direi “liquido” e finanche patologico della sua personalità, come se le tracce della malattia potessero già far capolino in quelle sue richieste “borghesi” così difformi dal discorso che sembrava a lui più proprio. Perché a qualcuno potrebbe rimanere il maligno sospetto che l’ideale di vita a tre prospettato per qualche tempo da Nietzsche fosse più tattico che strategico – Mario Carpitella, nella prefazione al volume, nega che si possa mettere la parola fine alle interpretazioni del caso.
Per intanto, va ricordato come le vicende che intrecciavano i rapporti fra i tre costituivano materiale gossipparo per l’intellighenzia europea e una spina nel fianco dell’insopportabile sorella del filosofo, ovviamente ostile a Lou, e già allora tutta presa dall’alacre macchinazione per fare, dal suo punto di vista, il bene del fratello. Il che contribuisce a fare di questa storia una vicenda a suo modo romantica, basandosi probabilmente e per lo più su una serie di atti mancati. Ché forse ilménage a trois restò solo sulla carta, cosa che queste lettere non chiariscono sino in fondo. Poiché in tutte le buone storie che si rispettano non riusciamo a non pensare al finale, ricordiamo i sentimenti amari con cui si chiude la vicenda – campeggiano inimicizia e odio, dice Nietzsche, qualcosa “di incompatibile  con tutta la mia filosofia”. Lo scrive alla sorella, e alla perfida antisemita che contribuirà a una lettura drammaticamente distorta del suo pensiero, non pare vero.

8 ott 2011

L'allungo del mezzofondista


Emil corre, appassionatamente, nevroticamente. La sua specialità
è il mezzofondo, e mentre corre sottrae quel tempo al tempo 
della vita quotidiana, tempo domestico, famigliare, tempo 
delle scelte. Spesso sbagliate. L’errore domina questa vita, che 
si tratti di moglie, amante, figli. La corsa è una fuga, 
ma anche un esercizio di disciplina, volto a inseguire l’armonia 
che scivola da tutte le parti, forse nello sport stesso… 
L’allungo del mezzofondista è l'ultimo romanzo di Giorgio 
Bona, l’editore è Iris4. 

5 ott 2011

moi,

Balzac e un trattato famoso


Balzac
Dalla Piano B edizioni, per la cura di Alex Pietrogiacomi, torna in libreria il Trattato della vita elegante. Com’è noto, al Balzac “teorico” – ammesso che l’espressione nel suo caso abbia un senso precipuo, considerato che l’ossessione per il suo immenso progetto narrativo fagocitava  ogni scritto – bisogna fare le pulci. Non è difficile coglierlo in contraddizione e non è la sistematizzazione logica quello che cerchiamo in lui: l’istintiva propensione all’enfasi del momento, l’esuberanza onnivora, un occhio posato sui boulevardsparigini, l’altro intento a misurare l’andamento di una partita sempre accesa fra sé e il mondo, costituivano evidenti fattori di distrazione. Non è nemmeno possibile dimenticare che non solo per gli ovvi limiti del suo aspetto – con il quale, cervello fino qual era, sapeva anche giocare – non poteva proporsi come un modello convincente dell’uomo versato alla vita elegante che è l’oggetto di questo piccolo trattato, compreso in origine nella Patologia della vita sociale, e ora ripubblicato come testo a sé stante (belle le illustrazioni di Massimiliano Mocchia di Coggiola)
.


Una vita di questo tipo intanto è concessa all’uomo “che non fa niente” e ci si potrebbe divertire a calcolare invece quanto tempo Balzac abbia dedicato al lavoro (Nietzsche, nel suo fervore “greco”, sosteneva che non vi fosse nulla di più decadente dell’uomo che, alzandosi al mattino, invece di camminare per le montagne, si mette a scrivere: anche qui, un lettore perditempo potrebbe fare due conti…). Certo, nel caso di Balzac, occorre tenere a mente il lavoro nella versione eccezionale dell’artista: “il suo ozio è un lavoro, e il suo lavoro un riposo”. Il numero delle sue pagine resta impressionante.“L’artista – prosegue -  è sia elegante che trascurato; indossa, per scelta, la blusa da contadino e impone il frac indossato dall’uomo alla moda; non subisce le leggi: le detta”. E questo ci piace. D’altronde, “il riposo assoluto produce lo spleen”, laddove “la vita elegante è, in una larga accezione del termine, l’arte di animare il riposo”. Siamo già più “sul pezzo”. Ovvio, poi, che l’eleganza non si compri, e che non abbia molto da spartire con il denaro ma  - e qui il reazionario (che sia di genio va da sé) c’è tutto – Balzac era dell’idea che averlo aiuta. Perché non è l’Italia del ventunesimo secolo, ma la Parigi di quasi due secoli fa, la borghesia è in ascesa (nessuno lo sa meglio di Balzac) ma l’alluredell’aristocratico aduso all’ozio dei possidenti pesa assai (lo si vede anche dal passo vero e proprio, dal modo di incedere e La teoria dell’andatura andrebbe letta assieme al trattato). L’eleganza non avrebbe da fare nemmeno con la moda, e ci piace anche questo.Sui dandies, l’autore di un romanzo fondamentale come le Le illusioni perdute - da consigliare a chiunque voglia farsi un’idea di cosa possa essere, fra le altre, la competizione letteraria (ah, le professoresse che si commuovono per le sorti degli scrittori infelici, o per il loro animo nobile: quando lo capiranno che sono le più grosse carogne della terra esclusi i banditi di Wall Street?) -, Balzac insomma sul dandismo traccheggia – ne intuisce forse il fregio suicida, l’impasse caricaturale. L’eleganza non s’ha da vedere (“il lusso della semplicità”), e il confine con l’errore è sempre vicino. Peraltro, il mondo aristocratico cui Balzac nostalgicamente guardava era in via d’estinzione, ma questo glielo si può perdonare. Non solo perché – ed è questa la contraddizione maggiore, benvenuta – soffi qua e là nelle pagine una turbinosa insofferenza per i presunti diritti estetici acquisiti per classe, alla nascita, a fronte di un tono, di uno stile che l’artista sa guadagnarsi per virtù proprie. Il fatto è che oggi in Italia, ahimé, l’"eleganza" è dei cafoni.

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