27 nov 2011

I filosofi e le maschiette di Francis Scott Fitzgerald

http://www.alibionline.it/biblioteca/2437-le-qmaschietteq-di-scott-fitzgerald-in-bilico-tra-moda-e-romanticismo.html


Dopo il successo folgorante del romanzo Di qua dal Paradiso, Francis Scott Fitzgerald dà alle stampe una raccolta di racconti di varia efficacia e riuscita, Filosofi e maschiette (Flappers and Philosophers), di non impervia lettura, buoni per un pubblico non necessariamente sofisticato, sebbene non manchino finezze psicologiche, micidiali battute e qua e là una certa aurea cupezza che la leggerezza di superficie non nasconde del tutto. Le storie raccontano un tipo nuovo di fanciulle non più adolescenti, non più ninfette, ma ancora acerbe per assurgere a una vagheggiata, abbastanza illusoria immagine di femme fatale, meno sicure di quanto non vogliano apparire, coi capelli corti da maschietto secondo un’immagine che all’epoca fece scuola. Per dire a ogni modo di un’asprezza, di un’individuale esibita sedizione al vetusto e ai loro occhi ormai ridicolo modello delle Piccole Donne – e della moglie dimessa e obbediente a una volontà maschile quale che fosse.Si tratta di un’America già cinematografica, anche nell’immaginario delle protagoniste, modaiola, attratta dalle feste e incline a un marcato gusto edonistico – le maschiette interessate più che a “rivendicare” femministici diritti civili o politici, com’è noto, a godersi la vita abbronzandosi su splendidi yacht nella convinzione di meritare il massimo in circolazione in virtù del loro fascino. Che non solo non è detto sia eloquente ma è talvolta gonfiato dal vizio di fondo di una vanità debordante, di una strafottenza destinata a sbriciolarsi davanti a eventi non calcolati, a subire il ritorno di micidiali rigurgiti “romantici”. Le maschiette insomma non sempre si rivelano all’altezza delle loro ambizioni, il perfido Fitzgerald lascia che si illudano, che giochino le proprie mosse, che si sentano padrone della scena, il tempo necessario per infilarle in una storia più grande di loro e farle soccombere – secondo cifra a lui tipica, sospesa fra leggerezza e dramma.
Fitzgerald_1Per quanto cinismo pretenda la maschietta de Il pirata, lettrice del dissacrante La rivolta degli angeli di Anatole France, non priva in effetti di una sua autocompiaciuta e caustica sveltezza (“Mi dicono che sono l’incarnazione della gioventù e della bellezza”, riferisce sprezzante al ragazzo che non sembrerebbe all’altezza dell’infatuazione che nutre per lei, preoccupato dall’affollato panorama di pretendenti. “E tu cosa rispondi?”, azzarda. “Oh. Concordo in silenzio”), per quanta si mostri sicura, non le riesce di rovesciare il paradigma del potere maschile, finendo per subire il piano ingegnoso dell’uomo che la seduce. Le giravolte narrative in Fitzgerald non mancano nemmeno nello spazio breve del racconto, così ne La testa e le spalle, il destino della solita bella coppia di scrittore e ballerina prende una strada inaspettata, e Berenice che si staglia i capelli alla maschietta per stare al passo coi tempi dietro suggerimento di amiche e cugine più scaltre di lei, non sa quanto farebbe meglio a starsene nella sua tristezza di goffa passatista. Insomma, i tempi stanno per cambiare, ma non tutte queste ragazze riescono a essere quello che vorrebbero. Nemmeno i maschietti, quelli veri, però se la passano troppo bene. C’è pure chi si becca qualche cazzotto in faccia di troppo, com’è nell’ultimo racconto Quei quattro pugni. La prosa di Fitzgerald, che qui non si risparmia qualche caduta corriva, l’eccesso didascalico in alcuni dialoghi, al solito ha momenti incantevoli, sempre su un filo fragilissimo di crudele, musicale levità. 




23 nov 2011


Quattro saggi fra vita, forma e linguaggi.

     
Isabella Mattazzi con i quattro studi compresi ne L’ingannevole prossimità del mondo (Arcipelago, pagine 154, euro 10,00) s’interroga sulle forme dell’immaginario romanzesco occidentale. Dal settecentesco Tiphaigne de la Roche (autore di un romanzo visionario, Giphantie, nel cui racconto di un “viaggio meraviglioso” sembra affacciarsi l’idea moderna di una percezione non esente dall’apporto delle macchine), al romantico E.T.A. Hoffmann, dal Potocki del Manoscritto trovato a Saragozza (sul quale Mattazzi ha già lavorato in passato) a Calvino, il libro traccia un’interessante mappatura di specole attraverso cui la narrativa moderna ha interrogato il mondo. Tratti convergenti: acutezza problematica dello sguardo, implicazione del linguaggio nell’osservazione, inafferrabilità (o inesistenza) di un ordine compiuto.


Altissima povertà (Regole monastiche e forme di vita) è l’ultimo capitolo in ordine di apparizione della ricerca sull’ “Homo Sacer” di Giorgio Agamben, filosofo fra i pochi che in Italia hanno mostrato in questi anni di avere qualcosa di davvero importante da dire. Nel libro (editore Neri Pozza, pagine 190, euro 15,00) Agamben s’interroga sul rapporto tra regola e vita che mai come nel monachesimo francescano ha tentato la forma assoluta di una “liturgia integrale e incessante” che coincidesse con la vita stessa. Il “cenobio” è stato dunque il tentativo di un “terzo piano di consistenza”, risultato di un superamento dei poli della regola e della vita. L’indagine di questo piano è l’oggetto del libro, con un’acquisizione preliminare e decisiva: la forma di un’esperienza umana sottratta alla presa del diritto in cui non si dà proprietà ma soltanto uso comune.


Homo Interneticus. Restare umani nell’era dell’ossessione digitale è un saggio denso di questioni inerenti lo stato dell’uomo internettiano, firmato dal saggista americano Lee Siegel e tradotto in Italia da Piano B (pagine 187, euro 13,50). Sembra un attacco alla rete e in parte non esigua lo è. Più esattamente, si tratta di un ragionamento articolato intorno alla condizione complessiva in cui l’entusiasmo incontrollato e un po’ fanatico del web (si pensi all’esaltazione acritica che di wikipedia fanno i suoi estensori) rischia di gettare ognuno di noi, visto che la saturazione comunicativa c’illude di incrociare una proliferazione infinita di messaggi – uguali ai nostri, altrettanto solitari e fantasmatici. Come la libertà presunta – il paragone ricorre nel libro di Siegel – di starsene nell’abitacolo della propria auto. Copertina di Maurizio Ceccato. 

Nel saggio Quando il corpo è delle altre (Bollati Boringhieri, pagine 157, euro 15,00) l’antropologa Michela Fusaschi guarda al ricorrente tema del corpo delle donne mettendo in discussione il  sistema valoriale e simbolico che l’Occidente pretende di imporre agli altri. Non che la studiosa trovi il repertorio di mutilazioni genitali in terra africana commendevole, ma il suo studio muove dal bisogno di smascherare la retorica di “buoni sentimenti” che nasce dal pulpito di sale operatorie sofisticate in cui la chirurgia genitale rimodella i corpi delle donne occidentali illudendole di essere libere. Il pensiero “liberale” si accampa nella potenza tecnologica per trovare liceità nelle proprie pratiche con ciò censurando qualsiasi altro orizzonte culturale.



18 nov 2011

Il carattere nazionale

Malerba non aveva mai fatto niente perché la sua impresa non sembrasse un bar in piazza. Il principio base della sua strategia aziendale era quello ipocrita del commerciante per cui il cliente ha sempre ragione. E siccome lì i clienti erano gli alunni, liberissimi di fare tutto il baccano possibile, ad aver torto erano sempre i professori, i commessi del prendi tre anni e ne paghi uno solo. Livio non era stato sorpreso neanche da quella temeraria denominazione di “Centro Studi”, perché l’ impudicizia cialtrona in questo paese era sempre esibita come un cammeo di vanità supplementare, provocando più ammirazione diffusa per la drittaggine che rivolta - verbosissima sempre, antropologica mai - per la sopraffazione: questo è un paese tragico per il fatto che non riesce mai a esserlo sino in fondo, era la sua conclusione. 
tratto da L'onda sulla pellicola

15 nov 2011

Emanuele Tonon


La luce prima


copertina del libro
Lo hanno detto – scritto in tanti: non è facile parlare di un libro dai tratti così intimi, privati e ovviamente dolorosi, visto che Tonon ne La luce prima, “struggente canto d’amore per una madre” (Isbn Edizioni) – una madre che non c’è più - risponde a un’urgenza non letteraria – che però letteraria è, non solo perché una semplice lettura consente di verificare come il testo non sia niente affatto privo di una sua cifra formale, ma perché, banalmente, è venduto come “romanzo”. In altre parole, La luce prima sfonda il chiuso domestico del diario personale ed è a tutti gli effetti un testo pubblico. Di più, si tratta di un’“opera”. Per questo, - scavalcando l’implicito, oggettivo benché involontario ricatto che questo genere di testi procura all’impegno del recensore - cercherò di sottrarmi alla trappola e trattare il libro alla stregua di qualsiasi altro testoDunque, Tonon “getta” nel suo romanzo un dolore terrificante, l’affezione per la morte della madre – una madre raccontata per lunghi, bellissimi, strazianti tratti con acutissimo e crudo benché innamorato sguardo corporale. In una specie di afflizione pauperistica si svolge una biografia drammatica, basti pensare che lo stesso figlio che la racconta non è un frutto dell’amore. Ma Enza sembra avere la forza dolce, l’amore ostinato di quei corpi minuti e oltraggiati dalla vita che sembrano toccati dalla grazia. Il narratore è lacerato da un altrettanto straziante senso di colpa per averla trascurata in vita, o almeno per non averla amata abbastanza. Gli è che Tonon non riesce a staccarsi da se stesso, dal sé scrittore che come ogni scrittore spesso finisce per non vedere altra cosa dallo scrivere. Preso dalle sue storie “oscene”, ha bisogno della morte per capire cosa (chi) ha dovuto sacrificare, per la scrittura. Per sentire sino in fondo. La consapevolezza vera di questa fine, arriva quasi come una folgorazione. Lo squarcio di luce che ne apre altri (secondo una lezione della ripresa inesausta della visione-narrazione-rivelazione che a me pare non ignara dell’esempio di Antonio Moresco) è anche il trabocco dell’amore e delle parole per dirlo. La vertigine è il destino di una corsa di pensieri e di parole (il ritmo compatto, torturante e cantabile insieme, presa com’è la voce dall’amore per la madre), corsa che esplora nella profondità inseguita della paratassi l’abisso non del male ma di un’assenza: la propria insufficienza di uomo, del Figlio che solo ora prende contezza dello Spirito Santo, e si macera, infliggendosi da solo la pena di questa colpa e cercando – suppongo – contemporaneamente di guarirne, attraverso la scrittura va da sé. Questo piano del racconto mi sembra da ascriversi in modo non trascurabile all’orizzonte culturale di riferimento dell’autore, che è religioso. Pertanto ne compenetra lingua e immagini. Il teologo-operaio Emanuele Tonon (sono questi i termini che vennero usati quando nel 2009 uscì il suo primo libro, Il nemico), che si è allontanato dall’istituzione cattolica, non ha smesso di perseguire la guerra amorosa con il suo Dio, “crudele”, che “salva solo chi gli pare (…) basandosi “sulla sua cecità sommamente giusta, dicono”. Tonon – che in tutta evidenza ci autorizza a non cercare filtri tra l’autore e la voce narrante – si sente tradito dal suo Dio ma non può fare a meno di amarlo. E non può non evocare man mano che approssima il finale un’immagine dell’amata madre perduta che è sempre più coincidente con quella della Madre madonna. Ecco, l’autore mi perdonerà, ma mi pare più interessante il netto che resta fuori da questa sorta di sovrastruttura. Lo spiritualista Tonon, che in conflitto con sé stesso e con il suo Dio, non smette di cercare una redenzione (sebbene - lo scrive egli stesso - tutto sia “irredimibile”) ha un senso così vivo, lancinante, e persino violento delle crepe, degli spacchi, delle fratture che de-compongono la rude materia del vivere, da lasciare - quando scava, scortica, frantuma il quotidiano - un segno terribile. Nella contorsione drammatica delle sue fatiche, delle insufficienze affettive, delle solitudini appestate e chiuse duramente in se stesse, delle mani meramente “efficienti” (e nemmeno tanto, nemmeno sempre) dei chirurghi affaccendati nel corpo aperto della madre, Tonon riesce a far male come pochi – a molestare (ossia a vivificare) la stolta quiete del lettore d’oggidì. 
Legittimamente, però, in questo libro aspirava a qualcosa d’altro. 



14 nov 2011

il carattere nazionale

con un mentana così, che sarebbe "meglio" degli altri, che la fa ancora così lunga sulle virtù mediatiche del suo ex padrone, e il cazzullo triste con il quale sparano a zero su qualche centinaio di persone che per un po' di caciara ingenua ma legittima (rivolta a chi da una sede istituzionale - adesso tutti ci si riempiono la bocca - per anni gli ha dato del "coglione") - insomma, ma che volete che cambi?

13 nov 2011

tornogiovedì

il carattere nazionale

Una mattina Livio torna a scuola dopo tre giorni di assenza e un ragazzo tutto d’un fiato gli fa: - Oh prof, finalmente l’abbiamo capito ‘sto Machiavelli. Ce l’ha spiegato la preside. Ha detto che la faccenda stringi stringi sta tutta in due paroline chiave, il leone e la volpe, nulla più, e che però gli italiani sono una massa di cretini e non se lo meritano per niente un autore di quel calibro visto che l’hanno fatta tanto lunga con mani pulite non volendo capire che un principe ci avrà pure il diritto di fare come gli pare altrimenti non è un principe ma un coglione.

11 nov 2011

UNA VOLTA, L'ARGENTINA

Sperando di non finire allo stesso modo: prendiamone il meglio, un eccellente scrittore per esempio


Andrés NEUMAN 

su lankelot
Ha scritto Borges da qualche parte – chiedo scusa per l’approssimazione, cito a memoria – che l’Argentina è sempre stato un paese con una sproporzionata idea di sé, perciò stesso fatalmente votato al sublime e alla retorica. Corollario aggiuntivo: incline a vivere al di sopra dei suoi mezzi reali. A leggere fra le righe di questo belmemoir di  Andrés Neuman, Una volta l'Argentina, scritto nel 2003 e tradotto ora da Silvia Sichel per Ponte alle Grazie, tutto questo lo si capisce benissimo (per chi avesse un interesse peculiare per il grande paese sudamericano, consiglierei di accompagnare la lettura di Neuman con un recente volumetto dell’editore il Mulino, Argentina, a cura di Marzia Rosti, che traccia un quadro preciso della sua storia, delle sue sinistre vicende politiche e sociali, dei suoi partiti e dei suoi ordinamenti giuridici).
Intanto, non sfugge al lettore come nel paese raccontato da Neuman galleggi un’insistente baldanza machista. L’esaltazione viriloide introiettata a forza da bambini, il calcio “maschio” (in un paese che pure ha dato i natali al più grande virtuoso della storia pallonara), l’estetica militarista delle dittature che non sono mai mancate – e sanguinarie. Neuman, discendente di emigrati europei, russi, francesi, ebrei poco osservanti, tutto questo lo constata con rapida ironia, facendoci i conti da piccolo, tenendosi, dato il temperamento non bellicoso ma nemmeno mellifluo, stretto un suo ruolo di outsider, invaghito di una “mezz’ala di classe”, il mancino Chino Tapia, che prima del sovrumano Maradona, per via del talento femmineo sembra patire diffidenze per gli eccentrici del pallone ben note a un altro paese carognesco assai– il nostro.
È solo uno dei modi possibili per leggere questo libro, nel quale l’eccellente autore de Il viaggiatore del Secoloalterna storie di antenati alle prese con l’Europa travagliata di fine Ottocento e inizio secolo, all’approdo nel “paese delle possibilità” (una versione più precaria ma fastosa degli Stati Uniti) dei parenti più prossimi, a ricordi più o meno plausibili della sua infanzia e adolescenza argentine – entra nel vivo, lui appena nato, col racconto di suo padre che si disinteressa del trionfo ai mondiali del ’78, non per snobismo ma perché gli è molto chiaro come lo spettacolo dei coriandoli che inondano lo stadio di Buenos Aires dopo il gol del 3 a 1 di Kempes all’Olanda nasconda l’immonda tragedia che sta cancellando dalla faccia della terra migliaia di desaparecidos. Del resto, il padre, musicista come la madre (violinista e coraggiosa sindacalista) il calcio non lo ama, non lo conosce, ma ne intuisce il portato (non inevitabile, ma possibile) di perversa, potenzialmente truffaldina passione sociale quando, per evitare il servizio militare, approfitta della credulità del caporale che gli domanda se non sia per caso il fratello del calciatore del Chacarita che porta il suo stesso cognome. Del resto, il bisnonno paterno Jacobo fuggì dalla Russia prendendo in prestito da un tenente tedesco un cognome non suo (Neuman appunto). Del resto, ancora, questo è il paese in cui Maradona, alla domanda se conosca Borges, chiede a sua volta in quale squadra giochi, involontariamente ricambiando la distrazione del grande scrittore che dice di non sapere nulla di Diego. Sublime – forse inevitabile che un paese abbia una tale concezione di sé: la mitopoiesi poggiando su qualche prodigioso elemento di fatto.
Così, anche le storie che Neuman racconta non è detto che siano sempre vere, la memoria può ingannare, l’immaginazione può prenderti la mano: tutto questo non è importante, ce lo ricorda egli stesso. Ci racconta degli zii Silvia e Peter, librai, che da un giorno all’altro vengono prelevati e portati via dai militari i quali non si accontentano di far sparire i libri (compreso Il Rosso e il Nero, visto il pericoloso colore iniziale da comunisti! - Videla ci teneva a informare gli argentini che terroristi erano tutti quelli che diffondevano idee “lontane dalla tradizione occidentale e cristiana”.) Di come i libri li scopracontro le insistenze dei propri genitori, due borghesi colti che non mancano di custodire fra i propri scaffali Edgar Allan Poe e Julio Cortazar, con grande stupore del giovane Andrés, costretto a rivedere il giudizio che, come ogni pischello che si rispetti, aveva frettolosamente formulato sulla loro personalità.
Ed è certo che diverte, Neuman, coinvolge, ha una sua grazia diceva Bolaño – vero -, una capacità di rendere cristalline le vicende più drammatiche di un paese affascinante ma sempre a un passo dall’abisso tragico, attraverso una scrittura capace di “intelligere” come poche, senza fare lezione, superando in souplesse qualsiasi patetismo – ma emozionante. A tratti fa pensare a una variante  meno caustica e fredda di Martin Amis. La narrazione è rapsodica, difficilmente insiste su una scena per più di qualche pagina. Fosse un romanzo magari sarebbe un difetto, ma Una volta l’Argentina non è propriamente un romanzo e si legge che è una bellezza.



6 nov 2011

Il sacro in nove vite indiane


WILLIAM Darlymple




Vita attiva e vita contemplativa, devozione personale e religione convenzionale, conflitto ancestrale fra ascesi e desiderio; questi alcuni dei poli dilemmatici che lo scrittore scozzese William Dalrymple, di stanza in India da 25 anni, ha tentato di individuare in Nove Vite (Adelphi), viaggio appassionante nel paese forse più incredibile della terra – un continente, si è sempre detto, a ragione. A essi, in straniante sovrapposizione, va aggiunta (oggi, in un passaggio della storia che vede l’India tracciare segnali scintillanti di quella che ci ostiniamo a definire modernità e nessuno è in grado dire se sia altro dallo spettacolo della tecnica) l’immaginabile dissonanza fra portati storici millenari che trovano nel sacro la loro perspicua definizione e corse in avanti al limite della governabilità (lo “sviluppo mozzafiato”, lo definisce l’autore).
Il contrasto in sé è affascinante e in queste Nove Vite raccontato attraverso vicende singolari ma a loro modo esemplari, fondandosi esse tutte su paradigmi culturali iscritti in una storia millenaria. Il fragore dell’impatto con la modernità è stato per l’India dirompente, accentuando nel proteiforme teatro che è la sua civiltà, contraddizioni, paradossi, antinomie. Ne emerge un quadro che sembra consegnarla al regime del romanzesco. Come altrimenti definire queste vite?
Prendiamo la prima. Prasannamati Mataji è una jainista, intenta a perseguire la “sallekhana”, il digiuno rituale estremo – anticamera di una morte liberatoria. Attenta a dove cammina, a non calpestare alcun essere vivente, il suo è un esempio di vita ascetica di durezza inimitabile (benché, e il paradosso è solo apparente, il jainismo in fondo sia una religione senza dio), che a noi occidentali appare folle (basterebbe rileggersi Pastorale americana, uno dei più grandi romanzi di Philip Roth). Se i monaci buddisti si rasano i capelli, i jaina se li strappano alla radice – tanto per dare un’idea. E debbono far strame di ogni emozione.
Ora, se in una vita ascetica occorre liberarsi da qualsiasi legame, qui la protagonista assiste al cammino di inaudita sofferenza e ricerca determinatissima della morte di un’amica monaca e malata terminale non accorgendosi nel frattempo di essersi legata terribilmente a lei. La bravura del narratore sta nella capacità di mettersi in ascolto, di accogliere queste storie senza giudicarle, aggiungendo al resoconto dei protagonisti solo i contesti necessari affinché i lettori ne inquadrino le coordinate culturali, storiche, religiose (prima che i lettori occidentali, si badi bene, gli indiani stessi, centinaia di milioni di persone che vivono “mondi” molto diversi fra loro).
Sono vicende che hanno del prodigioso. Succede con il danzatore  del Kerala appartenente ai fuori casta dei Dalit, che nella trance (“il corpo scuro e luccicante di sudore”) del “theyyam” diventa un dio e come tale viene venerato anche dai brahmani. L’uomo, che perlopiù vive una vita d’inferno come secondino in un carcere nel quale sono i prigionieri a dettare legge, descrive il suo rituale come un fattore di  scarto sociale che ribalta temporaneamente ruoli e gerarchie (non troppo diversamente dal carnevalesco della lezione bachtiniana).
Il racconto di Dalrymple anche in questo caso va in profondità, riuscendo a strutturare la biografia in una specie di piccolo romanzo. Di robusto scavo psicologico e ossatura sociologica, va detto. Lo stesso ancora può dirsi della storia di Rani Bai, una devadasi, ossia una prostituta sacra, consacrata alla dea Yellamma fin da bambina nonostante il suo tentativo di ribellarsi a una condizione ora inutilmente vietata dalla legge. Condizione che tuttavia la sottrae al ludibrio delle puttane 
non “consacrate”. O della tormentata vicenda di un monaco tibetano, buddista, che si credette in dovere di difendere il Tibet dall’invasione cinese (il buddismo ritiene legittimo l’uso della forza, in certi casi della violenza, per difendere il bene), perciò chiese di essere sciolto dai voti, combattè – invano, come sappiamo – grazie anche all’appoggio del governo indiano, e fu poi usato dallo stesso governo per una lotta, una guerra non sua in Bangladesh. Nove vite, nove storie. Un viaggio avvincente.





3 nov 2011

I CaratteriMobili di Abiusi

Quattro saggi di varia lunghezza e problematicità critica quelli raccolti in questo libro di Luigi Abiusi, Per gli occhi magnetici” (Caratterimobili 2011), piccola ma dinamica casa barese, attenta alla grafica quanto ai contenuti dei suoi libri.
Studioso all’Università di Bari, nonché autore di racconti (l’ultimo nell’antologia eroticaCumshort uscita in ebook per lo stesso editore), Abiusi si muove in una zona ibrida fra cinema e letteratura. Due poeti e due registi, Campana, Pasolini, Erice, Tarantino, ma soprattutto lo spostamento, lo sfondamento direi di un linguaggio nell’altro. Vale intanto nel saggio più interessante del volumetto, dedicato a Dino Campana, nella cui poesia l’autore cerca quella che ritiene una sorta di vocazione destinale verso la forma cinematografica.dal recensore.com

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