15 mar 2012

Erik Larson



Il giardino delle bestie

Neri Pozza


copertina del libro
Romanzo misurato ma appassionante,Il giardino delle bestie (l’editore è il vicentino Neri Pozza, la traduzione di Raffaella Vitangeli) dello scrittore e giornalista americano Erk Larson, che ricostruisce la storia del diplomatico americano William E. Dodd, inviato nel 1934 da Franklin Delano Roosvelt nella città in cui in quegli anni si stava letteralmente scrivendo e preparando una delle pagine più incredibili e orrifiche della storia umana – la splendida Berlino, ricolma di vessilli nazisti, bianco rosso e nero, triade sinistra che si staglia sul grigio diffuso che siamo abituati a percepire dai filmati dell’epoca e che mai come in questo caso ci sembra erroneamente necessario. Pare che l’industria del cinema americano si sia già mossa per fare del romanzo una trasposizione filmica di quelle da grande pubblico. Gli ingredienti ci sono (eccezion fatta per la scrittura temperata e attenta laddove notoriamente il cinema pesca bene da storie dal discreto potenziale narrativo ma scritte da cani) a partire dallo sfondo storico-geografico appunto. L’idea poi della “storia vera” per Hollywood è un ovvio elemento di attrazione. Peraltro l’autore ci tiene a definire il suo libro come un’opera di “non-fiction”: il virgolettato di ogni pagina non è di sua invenzione ma riportato da documenti, lettere, testimonianze etc.Fortunatamente, si tratta di un’ottima lettura per tutt’altri motivi, intrinseci alla bravura dell’autore. Che racconta di William Dodd, in principio uno storico, professore all’università di Chicago e dell’incarico che riceva di finire a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. L’affare lo sorprende, anche perché non gli risulta di avere santi nel paradiso dell’America che conta. In fondo non è che uno studioso che ha imparato il tedesco molti anni prima in un nemmeno troppo lungo soggiorno a Lipsia. Non pare particolarmente ambizioso se non nella sua professione, inadatto alla diplomazia e alla politica (ossia alla mondanità e alla fabbricazione di intrighi). Ma la sua ritrosia e discrezione nonché l’orientamento politico-culturale diremmo oggi progressista sembrano un ovvio anche se non determinatissimo contraltare alla furia nazista con cui dovrà fare i conti.Così, nel fasto cupo dei ricevimenti e delle feste dell’élite tedesca, Dodd si muove con educata parsimonia – financo eccessiva. Non che non veda l’escalation di esplosioni di violenza sempre più assurde. Le notizie sul regime che gli americani come tutti tendevano a sottovalutare, un po’ alla volta prendono sotto gli occhi del diplomatico la consistenza invincibile di fatti nudi e crudi, al punto che il Tiergarten - il più grande parco di Berlino, il centro di una vita urbana spettacolare - perderà ogni attrattiva per trasformarsi nella gigantesca sineddoche di una mostruosità: un giardino delle bestie, appunto. Abitato da “un’orda criminale di vigliacchi” scrive in una lettera il protagonista.La vera complicazione narrativa da cui muove la storia, assieme al passaggio tragico della cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” che dà una sterzata irrimediabile al clima del regime e al rapporto fra la Germania e gli americani, è un personaggio molto diverso dal diplomatico, la figlia Martha, ventiquattrenne un po’ troppo sensibile alle faccende d’amore. E a una certa idea del bello tanto perigliosa quanto superficiale. Lei subisce il fascino di una città che aspira in quegli anni a diventare “la capitale del mondo”. E degli uomini che la abitano. I peggiori. Che sfileranno davanti al lettore attraverso uno sguardo che riesce nell’impresa non scontata di rinnovare l’interesse verso un’epoca e un mondo che la letteratura e il cinema non smettono di saccheggiare. 

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