20 mag 2012

Il bel Lombroso di una volta

 su lankelot



L'uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie (1876) di Cesare Lombroso è uno di quei libri pochissimo letti e molto saccheggiati però “per sentito dire” sì da finire nel repertorio di pregiudizi (anche verso l’autore...) e convinzioni che muovono le chiacchiere e le prese di posizione dell’uomo comune – in Italia, mediamente parlando, uno squisito analfabeta.
Il testo fondamentale del medico e antropologo veronese, qui in un’ottima edizione de il Mulino a cura di Lucia Rodler, traccia nelle sue intenzioni una linea di congiungimento fra la ricerca “pura” e un bagaglio di saperi pronti all’uso nelle aule dei tribunali. Che avrebbero dovuto applicare alla giustizia le acquisizioni lombrosiane per dirimere casi, orientarsi fra le ipotesi, risolvere aporie. Con tutti i limiti che sappiamo, limiti epistemologici evidenti e fin troppo dileggiati, visto che a Lombroso va riconosciuto l’avvio degli studi di antropologia criminale, che all’interno di un sistema discutibile le intuizioni non mancarono certo e, soprattutto – è opinione dello scrivente – che l’opera inanella suggestioni letterarie molto molto seduttive. Peraltro, non v’è bisogno di ricorrere a Foucault per ricordare che gli apparati “scientifici” di “supporto” alle magistrature un secolo e mezzo dopo fanno acqua da tutte le parti, a iniziare dalla stessa psichiatria che vide all’opera il Nostro.
E vivaddio, quante volte il più raffinato erudito della terra trovandosi una certa faccia davanti ha pensato che non c’era bisogno di altro per farsene l’idea più giusta? Quante delle facce del potere politico di questi anni si sarebbero dovute allontanare dal consesso civile rimettendosi semplicemente all’evidenza di chiunque avesse ancora occhi per guardare e un circoletto di neuroni per giudicare? Il positivista Lombroso, va da sé, commetteva l’errore di trovare correlativi oggettivi di tendenze determinate nel labbro leporino, nella microcefalia e nel variegato paesaggio delle deformità; con le ben note osservazioni su zigomi e mandibole, sul “più folto e arricciato capillizio”, accidia e vanità congenite nei rei, strologava su basi materialistiche, e assumendo, quello sì molto pericolosamente, il paradigma di una dualità schematica e, va detto, ideologica almeno negli esiti: fra sani e delinquenti. 
Alla base di tutto, l’atavismo. Ossia l’insorgenza nell’individuo di tratti riemersi da ascendenti lontanissimi, come se il male principiasse in sostanza dai residui biologici del “primitivo che è in noi”, violenza e selvaggeria preistoriche che ritornano nel disordine evolutivo (errore rovesciato e complementare al candore sorgivo del fanciullo rousseauiano).
Di lì, il repertorio della tradizione fisiognomica si organizza intorno all’esame di crani, corpi, tatuaggi (non si contavano, dice Lombroso, i casi di vera e propria “analgesia”…); di statistiche antropometriche, mondo emotivo e affettivo dei criminali – sorta di categoria storica come il proletario di Marx, e qui manca solo la definizione formale di una filosofia della storia in cui alla lotta di classe si sostituisce la dialettica persone perbene vs delinquenti – i loro rapporti con la religione, l’istruzione e persino la letteratura.
E se non mancano intuizioni che collegano il crimine all’influenza ambientale, sociale, famigliare - al clima persino – ciò che attrae di più oggi in questo testo affascinante come un trattato di esoterismo per palati fini, è proprio la sua inattualità. I delinquenti non hanno rimorsi, scrive Lombroso, che non crede alla funzione educatrice del carcere: a dire come l’illuminismo da noi ebbe vita breve. E anche i romantici sovrastorici con Lombroso non si sarebbero divertiti granché. Non soffriva ahimé di alcuna soggezione, non subiva alcun fascino, anzi: i “delinquenti” a suo avviso riescono bene nella loro attività solo perché "ripetono sempre gli atti medesimi".  Così, viene da rimpiangere un’epoca che sospettiamo immaginaria, nella quale, a leggere Lombroso, i delinquenti avrebbero avuto una loro letteratura di riferimento: Ovidio (i suoi “libri osceni”…?), Petronio, Aretino…  E canti e storie popolari scovate nei passatempo dei carcerati, dove l’eroe narrativo è proprio, guarda tu, il criminale!
Chi scrive,  solo moderatamente pop, per nulla folk, ma lettore appagato delle nefandezze aretine e divertito dalle innocue canagliate del Satyricon, con Lombroso non avrebbe avuto scampo. E questo lo conforta. E lo ammalia la lettura di questa nota timidamente preoccupata: “So di un distinto poeta – scrive Lombroso - che appena vede sparare un vitello o solo appese le carne sanguinanti, è preso da libidine; e di un altro che ottiene eiaculazioni solo strangolando un pollo od un colombo.”
Quiz per i lettori più accaniti: di chi parlava?

7 mag 2012

L'ultima conversazione di Bolaño

dal recensore.com



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Cinque interviste a Roberto Bolaño, una non breve introduzione di Marcela Valdes centrata essenzialmente su 2066, il libro maggiore dell’autore assieme a I Detective selvaggi, un lucido saggio finale di Nicola Lagioia: questo il materiale che costituisce L’ultima conversazione, quinta uscita della collana SUR, pubblicazione che minimum fax dedica alla letteratura sudamericana fra l’Onetti de Gli addii e il Ricardo Piglia da La respirazione artificiale.
Un’occasione per entrare nel mondo (mai totalmente distinguibile nel suo moto pendolare fra vita e letteratura) dell’amato scrittore cileno. Sfrondando il discorso dal mito che negli ultimi tempi impedisce ragionamenti pacati sullo scrittore, è preferibile restare al dettato terra-terra su ciò che in effetti in queste interviste dice, non senza notare il voltaggio febbrile che fa oscillare le sue parole dalla tensione idiosincratica di un’urgenza fisica pressante - solo in parte probabilmente dovuta alla malattia che lo avrebbe portato alla morte anzitempo – e la visionarietà che gli consentiva di guardare alle più lontane latitudini, terrestri e letterarie, con uno sguardo simultaneo capace di dare le vertigini – i lettori dei suoi romanzi lo sanno bene. Le interviste (traduzione di Ilide Carmignani) coprono un arco di cinque anni, gli ultimi, per cui non può mancare la ormai celebre “Ultima conversazione” pubblicata pochi giorni dopo la sua morte.
Nota in Bolaño la conoscenza vasta delle letterature mondiali – se si può dir così – e non solo della tradizione latino-americana. Egli ci tiene peraltro a sottolineare che a suo avviso quella spagnola e quella sudamericana non sono letterature separate e che Borges è il più grande autore di lingua spagnola dai tempi di Quevedo – laddove Kafka sembra essere un vertice assoluto. Bolaño ricorda che al Messico deve la sua formazione intellettuale, alla Spagna quella sentimentale. E che leggere – in questo davvero degno nipote di Borges - sia più importante che scrivere. In tutte le interviste si percepisce l’atteggiamento di Bolaño, uno scrittore in grado di parlare di molte cose ma sempre senza sussiego – con quello spirito che non lo abbandonò sino alla morte, mutuato da una giovinezza d’avanguardia, da neoDada sudamericano.
Per Bolaño (e ancora prima per Borges, ancora) l’oblio è il destino che attende tutti noi. Ovvio, si dirà, ma non se questo sapere lo fai diventare carne e sangue della tua vita. Ricorda Lagioia nello scritto finale che è qui che l’ammirazione di Bolaño verso Garcia Marquez e Vargas Llosa sembra slittare dentro un buco nero di dubbi, che concernono non tanto il valore delle loro opere (o di alcune di esse) ma il passo un po’ monumentale con cui i due più celebrati scrittori sudamericani viventi si avvicinano alla morte: nella viziosa illusione di resistervi, sperando in una canonizzazione da consegnare all’eterno.
In questo scarto, nell’oscillazione inesauribile fra una concezione della letteratura mai marginale o esornativa (cui non è estraneo infatti il lavoro immenso, la fatica immaginabile che sta dietro all’opera di Bolaño, e, si capisce, l’esito effettuale della stessa) e l’agrodolce consapevolezza della finitudine in grado di stornarle, entrambe, vita e letteratura, dalle sue pretese enfatiche, con tutto il rischio della vacua retorica che si diparte per li rami, in questo combinazione magistrale sta un po’ la polpa, il sapore di queste interviste. Non a un cattedratico, o a un entartainer ma a uno scrittore vero che avrebbe voluto essere uno sbirro, o una canaglia.

4 mag 2012

Evelina Santangelo


dal recensore,com

cose-da-pazzi
Evelina Santangelo (di cui mi piace ricordare la cura di un libro straordinario comeTerra matta) scrive con Cose da pazzi (Einaudi) un romanzo fitto fitto sulla città di Palermo.
Anzi su un suo preciso quartiere, Spina, narrato con un’acribia del dettaglio, un’attenzione acuminata alle minuzie del quotidiano che sono la sua sostanza precipua. Costruito intorno alla vita e all’amicizia di due ragazzini in particolare, il romanzo della Santangelo inventaria la vibratile esistenza del quartiere – una zona di Palermo formicolante di chiacchiere e botteghe, ben resa da una lingua molto concreta - attraverso scansioni domestiche minime, fatti a volte di scarso peso narrativo, setacciando la vita vissuta negli interstizi di tempo, nelle pause fra una cena e il letto per dormire, fra “Striscia la notizia” e “Scherzi a parte” – una sfida non da poco. Che è tale solo in apparenza, perché facendosi accompagnare attraverso gesti, dialoghi, bar e barberie, interni famigliari e la scuola che frequentano Richi e Rafael il lettore pian piano penetra in un mondo che in luogo dell’apparente levità sospesa fra bozzettismo e sit-com televisiva (ma calato in un impasto sensoriale vivissimo, come se trascinati da una macchina da presa in grado di restituire odori e suoni del quartiere) slitta per passaggi minimi verso la condizione inferma che vi è sottesa: quella di un potere criminale che tutto ingloba, senza, in questo caso, scene madri e clamorose efferatezze, ma omnipervasivo, ivi acclimatato come una seconda natura. Verso il quale i protagonisti sono indifesi e prima ancora ignari. Brulicante di vita, vi si sta, a Spina, considerando, come ovunque, beni preziosi quelli che la comunicazione globale impone come tali ma per il resto confitti senza trovare il modo di immaginare altro, come in un mondo senza alternative.
Qui entra in gioco il personaggio decisivo del libro, una professoressa, per giunta supplente, che saprà instillare nella mente dei ragazzini il dubbio che ciò che chiamano “recupero crediti” (il pizzo) è tutt’altro che una pratica normale, ma un reato. Una figura sociale – e credo di non forzare né il dettato del testo né le intenzioni dell’autrice - che Santangelo investe di un peso simbolico notevole, ribaltando l’odierno e ferocemente perseguito discredito che sugli insegnanti è stato montato da chi ha (avuto) tutto l’interesse per farlo. Ovvio che un personaggio del genere rischia di fare la figura del santino – e in letteratura nulla vi è di peggio. Cosa che Santangelo schiva in virtù di una costruzione che fa emergere scene e personaggi “dal basso”, grazie insomma a una voce narrativa abilissima nel mettersi da parte - il pericolo del romanzo piuttosto è quello di insistere negli anfratti, nelle spire e nei vicoli anche ciechi del mondo che racconta trascurando i cambiamenti di tensione, gli scarti di temperatura emotiva che nell’arco delle trecento pagine sarebbero stati qua e là provvidenziali. E’ la professoressa, precaria, che fa baluginare nella mente dei ragazzi l’idea non solo inopinata della legalità come valore, ma, quel che forse più conta, dell’esistenza, della possibilità di un altrove – ossia il diritto all’immaginazione, che non può non passare dalla consapevolezza che il mondo non sia quello che gli hanno raccontato fino ad allora.
“E come fai a dire che ti piace qua se non hai visto altro?”. La domanda di cui, nei giorni in cui una regista come Roberta Torre decide di lasciare il capoluogo siciliano perché ormai invivibile, più di tutto hanno bisogno i ragazzini di Spina, Palermo (Italia, più o meno).

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