26 giu 2012

Vladimir Pozner


dal paradisodegliorchi


Il barone sanguinario

Adelphi 

copertina del libro
Dopo lo strepitoso libro dedicato alla fine di Tolstoj, Adelphi ci regala un’altra indagine narrativa dello scrittore e giornalista Vladimir Pozner (1905-1992), una biografia rapsodica su un personaggio terribile, fascinosissimo e cupo: artefice di una di quelle vite che sono storie in sé e che quando trovano il narratore giusto si leggono con una passione che i romanzi-romanzi garantiscono sempre meno. 
L’uomo era il barone von Ungern-Sternberg, aristocratico irascibile, astioso e sdegnato di suo, ferocemente avverso alla rivoluzione bolscevica. Immaginatelo il giorno che viene a conoscenza del fatto che i bolscevichi gli hanno preso la moglie (da cui era stato costretto a separarsi durante la fuga verso la Siberia), l’hanno violentata, torturata e poi uccisa. Insomma, al cospetto di una tragedia così oscena che farebbe diventare un uomo anche il più molle dei bipedi (per es. molti dei nostri scrittori “senza sangue”). Con un facile esempio di perfidia, potremmo dire che il fatto sembra scritto invece nel destino dell’uomo, un tipo dal temperamento e dalla psiche organizzati apposta per accoglierlo e trasformarlo in una vendetta abissale. A quel punto la storia del barone si appresta difatti a diventare un’epica mistica, molto poco beata e assai sanguinaria però, deciso com’è Ungern-Sternberg a riesumare la storia dei grandi khan, a rifarla egli stesso, a rimodellare il mondo. Debellare “la peste rivoluzionaria” e ricostruire un impero, sobillando popoli a seguirlo “dal Pacifico al mar Nero”, attraversare l’Oriente “come un uragano” saranno le sue ossessioni. Così, la ferocia delle imprese di questo folle paranoico, taciturno e antisemita che sembra tenere insieme il comando di razzie efferatissime e la contemplazione buddista, l’ostilità verso il raziocinio e una metafisica delle profezie, seminerà enormi scie di sangue dal nord Europa al deserto del Gobi.L’occasione del racconto di Pozner è un incontro con il poeta Blaise Cendrars, impegnato in una collana editoriale dedicata a figure di eccentrici avventurieri, per i quali aveva un debole. Cendrars convince Pozner a dedicarsi a questo “generale bianco che ha combattuto i bolscevichi in Estremo Oriente e dopo la disfatta dei sui capi si è ritirato in Mongolia”. Di lì, da queste scarne notizie parte la ricerca di Pozner. Che è a suo modo un’altra avventura. Perché per arrivare a una definizione attendibile di questa pazzesca, straordinaria biografia, sarà costretto ad attraversare altre storie, digressioni, passaggi sbagliati, gallerie di personaggi mai del tutto equilibrati, teorie di eccentrici che non la raccontano mai giusta e lo costringono a rimettere i pezzi daccapo – è la natura del mito, ché il barone quello è diventato, un figuro loschissimo ma inarrivabile. La scrittura di Pozner passa dal documento all’intervista, dal dettaglio alle ragioni generali di una storia che, barone a parte, è anche quella di migliaia di uomini (chi si è mai interessato alle sorti dei mongoli nel ‘900?) sommersa da vicende ben più note - senza che nulla vi faccia difetto, però, quanto a passioni, deliri, violenza: la vita, più o meno.


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