30 set 2012

ricordo d'infanzia



Sull'inserto laLettura del Corriere di oggi, alcuni ricordi d'infanzia raccolti da Giulio Mozzi per un libro futuro


http://vibrisse.files.wordpress.com/2012/09/laletturan46_30-09-2012.pdf

qui il mio


È autunno e fa già freddo. Sto al bar del mio piccolo paese sugli Appenini lucani. Un posto per tutti, compresi i ragazzini di sette-otto anni come me. Ci sono il juke-box e il flipper. Gli adulti giocano a carte nelle stanze più interne. Quando entra Adele con le sue amiche, ho appena strappato a mio nonno cinquanta lire per l’aranciata. Non so dove posare lo sguardo e ho paura di diventare rosso. Ma mi faccio coraggio e le offro un Buondì Motta. È il primo corteggiamento della mia vita.


21 set 2012

Los Angeles Stories


su http://www.tornogiovedi.it/2012/09/los-angeles-stories/

Ry Cooder


Nell’indimenticabile Buena Vista Social Club (non a caso film-non film di un pomposo signore tedesco che un tempo era stato regista di talento e con l’intrapresa cubana interrompeva una serie già annosa di esercizi cinematografici ammorbanti), il bassista Cachaíto Lopez a un certo punto dice: “L’unico mio stile è la concentrazione”. Che mi è sempre parsa proposizione tanto onesta quanto  geniale.
L’ideatore di quel progetto come si ricorderà fu il chitarrista Ry Cooder, che ora con i racconti tradotti per Elliot da Luca Fusari, Los Angeles Stories, dimostra sufficiente concentrazione, ossia apprezzabile serietà d’intenti e di metodo, in un mestiere che non è il suo, quello di scrivere storie. Lo fa allestendo un campionario di figure che quando non hanno qualcosa da spartire con la musica – comunque spesso – sembrano disporre il loro rapporto con la realtà in maniera fantasiosa, obliqua, anche nella versione più cupa di un destino che chiamiamo convenzionalmente noir.
Ora, se non è qui che cerchiamo la genialità di un artista che ha saputo andare ben oltre i confini angusti di una chitarra rock, Cooder dimostra però di sapere cos’è un approccio onesto – e capace – verso forme espressive estranee alla sua professione. Implicito risulta il suo sguardo aperto, curioso ma rispettoso verso una complessità di modelli narrativi ed estetici (che è quello che ha sempre fatto all’interno del lavoro musicale). Le storie di Los Angeles guardano a un sorta di “America ieri”, di mezzo secolo fa, più immaginaria che reale forse, a suo modo codificata fra cinema, musica e letteratura nel suo lato più ambiguo, sospeso fra il crimine, più indotto dal disincanto che efferato, e il sogno – a partire dall’eco della Bunker Hill del grande John Fante.
È da lì che, nel racconto non casualmente introduttivo, organizza le sue giornate il raccoglitore di dati dell’Annuario della città di Los Angeles, mestiere che gli consente di conoscere una varia umanità di malandati e falotici cristi che la sfangano alla bell’e meglio.
C’è di tutto in questa città-mondo, ballerine, alcolizzati, venditori improbabili di piccole felicità, disturbati d’ogni sorta, mafiosi e detective va da sé. Ma soprattutto musicisti, quelli veri e quelli farlocchi, e musica che pare connessa intimamente alla vita dei più,  gente che la suona o la ascolta, e trattandosi di Cooder, ovviamente spaziando dal blues alla samba, dal rock al jazz. Accanto a John Lee Hooker o Charlie Parker, ecco sconosciuti e immaginari protagonisti di illusioni fatte di note musicali che ballonzolano nella testa e li fanno finire su palchi molto provvisori; e si sa, se la vita dell’artista è giù dura di suo, la proprietà di questi locali non è mai cristallina. Nel fallimento, il crimine diventa una possibilità concreta.
Una Los Angeles molto “costruita” dunque dalle narrazioni precedenti – la si direbbe quasi nata come spettacolo a priori. Sia come sia quel che conta è che Cooder, un musicista, dimostra di saper raccontare. E qui “la domanda sorge spontanea” etc: gli americani lo fanno meglio? Non mancherà il lettore pronto a sbuffare. Vorrei rassicurarlo. Non è che ci si svegli la mattina smaniando per tirare addosso all’editoria italiana (lo fa benissimo da sola). Ma, per quanto epigonici siano questi racconti, per quanto difficile sia sottrarsi a un certo sapore dideja vu che in fondo è obbligato dal fatto che i racconti sono innanzitutto un omaggio a un immaginario, provate a leggere Los Angeles Stories insieme al fessissimo catalogo di un noto editore milanese che se li è fatti tutti, gli sciacquapalle (già falliti come musicisti) Ligabue Capossela Jovanotti (me ne sarò scordato qualcuno ma mi pare di ricordare che il Vecchioni – uno dei fenomeni più tristi d’Italia – sia un affaire di altri) e poi mi dite.

12 set 2012

GAIL HAREVEN

su lankelot

LE CONFESSIONI DI NOA WEBER


Romanzo interessante seppure non privo di difetti Le confessioni di Noa Weber,esordio sulla scena italiana di Gail Hareven, appena uscito per i tipi di Giuntina. Sentimenti e trepidazioni dispiegate con scioltezza di spirito (di chi li ha metabolizzati con franchezza), dunque un certo grado di onestà e caparbia presunzione nelle faccende amorose; e ancora, acume analitico a tratti capzioso che non sfigurerebbe nel campionario allestito dal discorso amoroso dell’indimenticato Barthes: direi che sono questi i talenti esibiti nel libro della scrittrice, polemista e storica del femminismo nata in Israele nel 1959.
Spingendo sul pedale di uno humour che non ha nulla della vacua leggerezza della banalità, la storia raccontata in questo libro chiama l’attenzione partecipata del lettore non solo satireggiando le “donne che amano troppo” (e inveendo contro i loro uomini) che una consolidata femminista ovviamente non può tollerare, ma anche scivolando sul versante più ambiguo e letterariamente più interessante di una confessione (giusto il titolo) di quanto la libertà di muoversi e scopare a piacimento non basti a sottrarsi a una sorta di schiavitù sentimentale.

Noa Weber è ancora una ragazzina quando nell’estate del 1972 s’imbatte in Alek, un ragazzo incontrato negli ambienti artistoidi e intellettuali di Gerusalemme, giovane dall’aria sicura che la destabilizza una volta e per sempre con un semplice gesto, il dito di uno sconosciuto che la invita a seguirlo come fosse una bambina, un “movimento nonchalant che la eccita come se le si muovesse fra le gambe”. Noa ne farà il tormentatissimo amore della sua vita. E non potrebbe essere altrimenti se è vero che al momento non è nemmeno sola, avrebbe un fidanzato con cui va d’amore e d’accordo e che lascia secco con una freddezza improvvisa (in effetti narrativamente il passaggio non convince del tutto).
Noa non sa ancora che è destinata a un futuro di scrittrice, di successo per giunta; e che non le basterà una vita socialmente, sessualmente, “emancipata” – si sarebbe detto una volta, e si credeva che nella parola vi fosse il mondo, al meglio delle sue possibilità – per sfuggire al destino di innamorata cronica che l’aspetta. Non le basterà sapere (e dirlo senza fronzoli e orpelli romanticoidi, e farlo, convinta che l’uomo si ecciti sentendo l’odore di altri uomini su di lei – su questo, vorremmo dissuaderla…) che “si scopa per divertimento”. O convincersi che la retorica sentimentale è insopportabile. Né crescere, da sola, la figlia frutto di quell’amore (di lei per lui, soprattutto) organizzandone l’impianto pedagogico sulla base di un femminismo radicale e meno incerto del suo (il deficit la narratrice se lo trova da solo, il lettore forse non sarebbe d’accordo). Sarà proprio l'ossessione immarcescibile per Alex - inaccettabile per i principi ideologici della donna - a darle una paradossale possibilità di uscirne, in un certo modo, salva: vincente.
Il limite del romanzo è il troppo di elucubrazione sparso nelle trecento e passa pagine. Non di rado il lettore ha la sensazione che la voce dell’autrice empirica si sovrapponga a quella della protagonista. Che dichiari più che mostrare  (a prescindere s’intende da cosa “dice”, da ciò che chiamiamo volgarmente “prese di posizione”: in letteratura son tutte buone e nessuna lo è nel momento in cui il racconto cede il passo all’enunciazione).
La sua forza sta invece nel fatto che la stessa voce debordante e un po‘ oltranzista, ideologicamente arcigna, è anche sapida di verve e ironia. Lingua e intenzioni nella traduzione di Shulim Vogelmann suonano vivaci e irridenti. Da subito. “Del tutto impossibile ormai parlare di Gerusalemme. Cioè, impossibile senza vicoli tortuosi, cortili di pietra, ciuffi di capperi e donne arabe sulla piazza del mercato. E io non ho nulla da dire sui ciuffi di capperi e i cortili di pietra e neppure ho il minimo desiderio di insaporire la mia storia con il colorito gergo di coloriti personaggi di Gerusalemme che si arricciano i baffi snocciolando favole orientali”. Peraltro, tranne alcuni brevi inserti, nel romanzo della Hareven la società israeliana resta sullo sfondo, non per disinteresse, anzi, ma perché l’esercizio di riflessione sembra esercitarsi su una modalità particolare del discorso pubblico. Quella in cui riecheggia il motto di alcuni decenni anni fa: “Il privato è politico”. Se erano bei tempi non lo so, inconclusi e brutalmente distanti, di certo.

9 set 2012

Ronald H.Fritze


Falsi miti - Come si inventa quello in cui crediamo


copertina del libro
Ronald H.Fritze insegna Storia all’università di Athens in Alabama. È l’uomo giusto al posto giusto, si direbbe. Da uno degli stati americani più conservatori, tradizione fatta di mitologie fondative refrattarie alla verifica critica, empirica e scientifica, Fritze dispiega un piccolo campionario di esempi di pseudostoria e credenze annesse, dal riemergente mito di Atlantide ai molto famigerati alieni che nella Preistoria sarebbero piombati sulla terra per insegnarci a costruire piramidi; o ancora, dall’oltranzismo narrativo del movimento Nation of Islam alle congetture altrettanto fantasiose ma assai dogmatiche sulla “scoperta” dell’America. Ché il punto più interessante fra quelli che emergono nell’indagine di Fritze fra le strampalate narrazioni che attraversano il reticolo geografico è questo: spesso i fautori delle opinioni più stravaganti in materia di (pseudo) storia risultano molto più intolleranti degli illuministi – utilizzo l’espressione in senso lato e metastorico – contro cui inveiscono per il loro presunto “cieco” e intransigente razionalismo. Indifferenti ai protocolli minimi della ricerca storica, sospettosi sovente verso le regole sottese a un approccio scientifico, indifferenti all’elementare concetto di prova, questi ultras di teorie cospirazioniste e complottiste sospettano di tutto tranne che della loro corriva ingenuità. Tutt’altro che innocente, peraltro, se è vero come è vero che non di rado “la pseudostoria si presta a diventare un veicolo di razzismo, di fanatismo religioso”. Ricorda Fritze la perniciosa confusione fra leggenda e mito e fra possibilità e probabilità che impera nella pseudostoria e nella pseudoscienza, che si tratti dell’Evemero (300 a.C.) interprete di un dettato letterale dei miti greci o dei fondamentalismi mai sopiti di certo protestantesimo americano in chiave biblica. Che ci crediate o no, Galilei sembra aver vissuto invano per milioni di persone. Il libro si apre con il mito di Atlantide, immarcescibile, “prodotto durevole e commerciabile – scrive Fritze – che fa gola a molte persone diverse”, per secoli da più parti rimasticato attraverso variazioni e declinazioni disinvolte dell’avventurosa ipotesi di Platone che (ri)leggeva da par suo la distruzione dell’isola vulcanica di Thera. Gli altri, dopo, indifferenti a dati e prove e fatti accertati hanno collocato e fatto sprofondare quella terra di segni archetipi a piacimento qua e là. 
Ci sono poi gruppi di esaltati inclini alla violenza più oscena, quella che ha bisogno di giustificazioni teoriche immancabilmente ridicole per (far) credere di stare in piedi, che rileggono cosmogonie antiche in chiave razzista. Il caso del Christian Identity (a volte fra tifosi, religiosi e barcollanti sognatori di alieni le affinità sembrano strutturali) che arriva a sostenere l’eredità biologica degli ebrei da Satana (avete letto bene). A fronte di una tale incredibile imbecillità, negare l’Olocausto come si fa ancora oggi da più parti, pare quasi un dettaglio trascurabile. Più complesso il caso dell’Atena Nera di Martin Bernal che negli anni furiosi del “politically correct” poneva giustamente la questione di un’influenza africana nella cultura occidentale e malamente la risolveva in un tendenzioso e assai fragile afrocentrismo (così, ne approfittiamo per ricordare la recente scomparsa dell’ottimo Robert Hughes la cui splendida Cultura del Piagnisteo tradotta da Adelphi nel 1994 consigliamo alle prefiche che ci ammorbano oggi come allora).

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