21 set 2012

Los Angeles Stories


su http://www.tornogiovedi.it/2012/09/los-angeles-stories/

Ry Cooder


Nell’indimenticabile Buena Vista Social Club (non a caso film-non film di un pomposo signore tedesco che un tempo era stato regista di talento e con l’intrapresa cubana interrompeva una serie già annosa di esercizi cinematografici ammorbanti), il bassista Cachaíto Lopez a un certo punto dice: “L’unico mio stile è la concentrazione”. Che mi è sempre parsa proposizione tanto onesta quanto  geniale.
L’ideatore di quel progetto come si ricorderà fu il chitarrista Ry Cooder, che ora con i racconti tradotti per Elliot da Luca Fusari, Los Angeles Stories, dimostra sufficiente concentrazione, ossia apprezzabile serietà d’intenti e di metodo, in un mestiere che non è il suo, quello di scrivere storie. Lo fa allestendo un campionario di figure che quando non hanno qualcosa da spartire con la musica – comunque spesso – sembrano disporre il loro rapporto con la realtà in maniera fantasiosa, obliqua, anche nella versione più cupa di un destino che chiamiamo convenzionalmente noir.
Ora, se non è qui che cerchiamo la genialità di un artista che ha saputo andare ben oltre i confini angusti di una chitarra rock, Cooder dimostra però di sapere cos’è un approccio onesto – e capace – verso forme espressive estranee alla sua professione. Implicito risulta il suo sguardo aperto, curioso ma rispettoso verso una complessità di modelli narrativi ed estetici (che è quello che ha sempre fatto all’interno del lavoro musicale). Le storie di Los Angeles guardano a un sorta di “America ieri”, di mezzo secolo fa, più immaginaria che reale forse, a suo modo codificata fra cinema, musica e letteratura nel suo lato più ambiguo, sospeso fra il crimine, più indotto dal disincanto che efferato, e il sogno – a partire dall’eco della Bunker Hill del grande John Fante.
È da lì che, nel racconto non casualmente introduttivo, organizza le sue giornate il raccoglitore di dati dell’Annuario della città di Los Angeles, mestiere che gli consente di conoscere una varia umanità di malandati e falotici cristi che la sfangano alla bell’e meglio.
C’è di tutto in questa città-mondo, ballerine, alcolizzati, venditori improbabili di piccole felicità, disturbati d’ogni sorta, mafiosi e detective va da sé. Ma soprattutto musicisti, quelli veri e quelli farlocchi, e musica che pare connessa intimamente alla vita dei più,  gente che la suona o la ascolta, e trattandosi di Cooder, ovviamente spaziando dal blues alla samba, dal rock al jazz. Accanto a John Lee Hooker o Charlie Parker, ecco sconosciuti e immaginari protagonisti di illusioni fatte di note musicali che ballonzolano nella testa e li fanno finire su palchi molto provvisori; e si sa, se la vita dell’artista è giù dura di suo, la proprietà di questi locali non è mai cristallina. Nel fallimento, il crimine diventa una possibilità concreta.
Una Los Angeles molto “costruita” dunque dalle narrazioni precedenti – la si direbbe quasi nata come spettacolo a priori. Sia come sia quel che conta è che Cooder, un musicista, dimostra di saper raccontare. E qui “la domanda sorge spontanea” etc: gli americani lo fanno meglio? Non mancherà il lettore pronto a sbuffare. Vorrei rassicurarlo. Non è che ci si svegli la mattina smaniando per tirare addosso all’editoria italiana (lo fa benissimo da sola). Ma, per quanto epigonici siano questi racconti, per quanto difficile sia sottrarsi a un certo sapore dideja vu che in fondo è obbligato dal fatto che i racconti sono innanzitutto un omaggio a un immaginario, provate a leggere Los Angeles Stories insieme al fessissimo catalogo di un noto editore milanese che se li è fatti tutti, gli sciacquapalle (già falliti come musicisti) Ligabue Capossela Jovanotti (me ne sarò scordato qualcuno ma mi pare di ricordare che il Vecchioni – uno dei fenomeni più tristi d’Italia – sia un affaire di altri) e poi mi dite.

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