10 lug 2013

Il ritmo dell'architetto

in vendita qui    http://www.lite-editions.com/atlantis/michele-lupo/il-ritmo-dell-architetto.html
 oppure http://www.amazon.it/Il-ritmo-dellarchitetto-ebook/dp/B00DTR655K
http://www.ibs.it/ebook/Lupo-Michele/Il-ritmo-dell/9788866654629.html
Mentre su quella città la vita sarebbe continuata per sempre, Luca sarebbe stato dimenticato, sarebbe restato solo un nome incerto nella memoria casuale di qualcuno indaffarato da qualche altra parte. 
Il ritmo dell'architetto

12 giu 2013

Giancarlo Liviano D'Arcangelo

su lankelot

INVISIBILE È LA TUA VERA PATRIA



Nella chiacchiera bolsa sullo stato delle cose in Italia, segnatamente quando si parla di lavoro, si omette di dire che il fallimento di questo tristissimo e ridanciano paese è anche di idee – si campa (si boccheggia) sulle spalle di una malintesa creatività italiana che pare più un reperto del passato che una risorsa del presente (sul futuro meglio tacere). Come se l’odierna crisi dipendesse tutta e solo da oscure, esoteriche macchinazioni finanziarie, e niente avesse da spartire con la totale assenza di un progetto - di una politica industriale, per esempio. A meno di non definire tale l’esasperata miniaturizzazione in piccole imprese che hanno tirato fino allo spasmo senza curarsi granché della innovazione, del bene pubblico, dei diritti di chi vi lavora(va). Da padroni – il caso di dire – l’hanno fatta l’improvvisazione, la pensata estemporanea, l’avventura individuale non di rado cialtronesca.
Nella storia – tutt’altro che giornalistica - di questo fallimento consiste parte del libro dello scrittore pugliese Giancarlo Liviano D’Arcangelo "Invisibile e' la tua vera patria" (l’editore è Il Saggiatore), bel viaggio nel paese (che fu) da nord a sud: una ricognizione dell’Italia industriale del ‘900, dei suoi luoghi fisici e della vera vita che vi ha preso corpo: economia, società e immaginario persino. Raffinerie, miniere, architetture industriali a volte maestose che dopo aver fatto deflagrare il paesaggio e averlo consumato fino all’ultima pietra hanno lasciato solo rovine: dalle centrali elettronucleari intorno al Garigliano alle acciaierie di Taranto passando per il petrolchimico di Ravenna e le miniere sarde del Sulcis.
Ma non solo questo. Il libro non parla solo di stabilimenti dismessi – di fallimenti. Tornano anche storie commendevoli ed esempidi quella progettualità “a misura d’uomo” nominata prima, come il villaggio operaio - patrimonio dell’umanità - fondato dai cotonieri Crespi, modello di imprenditoria tessile e visione d’insieme di una vita, di una comunità possibile che non riduce il lavoro alla mera logica dello sfruttamento degli uomini e del territorio.
Semplificando ma non troppo, l’Olivetti di Ivrea e l’Ilva di Taranto rappresentano i due poli, negativo e positivo, del viaggio di Liviano D’Arcangelo. Nel primo caso si è provato a tenere insieme lavoro e una vita “possibile” ossia non sottomessa alle mere ragioni del capitalismo: “l’universo olivettiano quale prova di un’alterità assoluta”. L’imprenditore che volle circondarsi di intellettuali non ebbe vita facile nel suo progetto di una città dell’uomo ma riuscì a segnare un capitolo raro nella storia della vita italiana tout court. Lo scrittore racconta come la Cia, monitorandone l’azione, in tempi di guerra fredda scopriva che un’impresa come quella di Olivetti, decisa a coniugare i principi dell’efficienza industriale a un idealismo – all’epoca ritenuto paternalistico dai marxisti – attento al benessere della comunità, poteva essere un ottimo baluardo contro le tentazioni dello stalinismo.
All’opposto, va da sé, la sciagurata storia tarantina (che all’autore sta a cuore anche per ragioni biografiche). Qui – nel mastodonte siderurgico che ancora fa dire a molti “meglio morire di cancro che di fame” - tutto è sottomesso a interessi privati. La tragedia è viva – sebbene il paesaggio faccia pensare all’incandescenza dell’inferno -: odierna. Materia giornalistica, come tutti sanno, ma capace purtroppo di compendiare in un unico luogo ferocia e miserie e aberrazioni apocalittiche. Quello di Liviano D’Arcangelo è un prezioso reportage che - pur non mancando dati, resoconti più o meno oggettivi e inserti fotografici – ha più del letterario che del giornalistico. Vi si ricostruisce bene il senso, il valore anche simbolico, così come l’orizzonte di speranze e le reali condizioni di vita di una parte fondamentale della storia italiana moderna. L’autore scrive a partire dai racconti di uomini che quelle storie le hanno vissute in prima persona; e lo fa mettendo in scena il proprio personale coinvolgimento, nutrito più di formazione sentimentale che di griglie ideologiche. La narrazione e l’enucleazione dei fatti è costruita all’interno di una visione: sguardo e immaginazione dello scrittore. Ciò da un indubbia forza espressiva al libro, ma talvolta gli fa correre dei rischi. Certi tratti stilistici risultano un po’ enfatici - Liviano D’Arcangelo è un virtuoso e qua e là si fa prendere la mano. Succede perlopiù quando è toccato dalla “commozione” per ciò che vede e ciò che è andato perduto: in quei casi l’aggettivazione ne risulta sbilanciata. A suo modo un libro di storia, eterodosso, obliquo, ma intenso.

1 mag 2013

John Cage. Una rivoluzione lunga cent'anni


su lankelot

Consultava I Ching, inventava ricette macrobiotiche e partecipava a trasmissioni popolari come “Lascia o raddoppia”. Detta così, potrebbe essere solo una traccia biografica qualunque, magari di un tizio appena un po’ eccentrico. Invece stiamo parlando di John Cage, un eccentrico certo, ma soprattutto rispetto al mondo di cui faceva parte, e del quale ha segnato un momento singolare nella storia del ‘900: la musica. Dal pianoforte preparato all’alea come paradossale “struttura”, dal silenzio come principio fondamentale al rumore che rumore non è, l’esperienza del geniale americano ha attraversato molti snodi del linguaggio artistico (direi prima che meramente musicale) di un tempo che ora sembra lontanissimo solo perché il cosiddetto neoromanticismo degli ultimi trent’anni ha prodotto devastazioni non molto differenti da quelle conosciute dall’Occidente politico. Aperto peraltro, Cage, e non troppo casualmente, anche al pensiero orientale; ma il suo era un interesse scevro dallo stucchevole arredamento estetizzante e facilmente esotico dei più.
Di questo e molto altro si occupa il ponderoso volume a cura di Giacomo Fronzi, edito da Mimesis, John Cage – Una rivoluzione lunga cent’anni, che celebra degnamente il centenario della nascita e si avvale di decine di contributi. A partire da un’inedita – per il pubblico italiano – intervista di Stephen Montage, studiosi come Enrico Fubini, Alessandro Bertinetto, Elio Grazioli e molti altri affrontano l’universo cageano da prospettive diverse. L’eterogeneità d’intenti e argomenti vale di per sé a testimoniare come la figura di Cage abbia terremotato territori espressivi molteplici: giusta l’ovvia definizione di avanguardia, disposizione incline al crocevia di arti, estetiche (non mancando la filosofia): live electronics, danza, arte visiva, happening, teatro, radio. E poi c’è il Cage anarchico, il lettore di Thoreau che però tende a non confondere il momento espressivo con l’adesione a una prassi ideologica - vale la distanza con un compositore per altro interessantissimo come Cornelius Cardew che a un certo punto lo accuserà di aver rinunciato alla rivoluzione. Quella rivoluzione che è invece la cifra individuata dal curatore Fronzi, che di Cage traccia anche un profilo biografico, dalla nascita nel 1912 lungo un percorso che attraverso tutto il secolo ventesimo. Sempre spinto dall’urgenza di sperimentare, convinto che l’arte non sia semplicemente un’azione, un gesto tecnico, né tantomeno un “prodotto finito” ma sempre un processo (Franco Degrassi) ma un modo di percepire il mondo e ridefinire il modo di vivere degli individui, Cage “invita la creatura umana a rimettersi in relazione col proprio ecosistema” secondo quanto scrive la musicologa Fiorella Sassanelli in uno dei saggi più interessanti, dedicato al tema del silenzio visto all’interno di una serie che comprende anche i nomi di Giacinto Scelsi e Salvatore Sciarrino: tema centrale in Cage (e meno ignoto ai più per il celeberrimo 4’33’’: molto banalmente “il silenzio on esiste”) proprio perché più di altri apre un orizzonte “sonoro” che sgretola la cornice in cui a suo avviso si chiudeva la nozione stessa di “musica”.
Incursore spregiudicato in territori sconosciuti, “compositore non intenzionale”, Cage scompagina d’un tratto l’intera tradizione occidentale: con l’agilità di un monaco zen un po’ burlone fa spallucce al lavorio pedante della scuola dodecafonica potendo oltrepassare con un solo salto la dialettica storica fra tonalità e atonalità (una “disincantata libertà” la sua, la definisce Fubini). Microfoni sparsi nell’aria, nastri magnetici, materiali elettronici nei quali ripone forse eccessiva fiducia: punto culminante della modernità e insieme suo epilogo, ad avviso – non so quanto persuasivo - di Marco Gatto. Le opzioni, le letture sono – e non potrebbe essere diversamente – contrastanti, ma, quel che conta, riccamente argomentate. Il corpo di apparati che segue (bibliografia, discografie, interviste, scritti, video) contribuisce a fare del volume un’opera fondamentale per conoscere Cage, rilanciarne la figura all’interno di una storia non solo musicale dopo la quale niente è più stato come prima.

17 apr 2013

Anne Wiazemsky e J.L. Godard: una storia d'amore


CrucialeUn anno cruciale: Anne Wiazemsky nel 1966 è ancora minorenne, Jean-Luc Godard ha quasi vent'anni più di lei. Come nel rapporto fra Ingrid Bergman e Rossellini, anche questa storia fra un'attrice e un regista importante principia da una lettera, in cui la prima dichiara al secondo di amare il suo cinema e anche la persona che vi è dietro. 


Sul peso specifico dei quattro, giudichi il lettore: ma all'ex attrice che all'epoca aveva recitato solo in un film (ma di quelli che hanno segnato la storia del cinema: Au hasard Balthazard di Robert Bresson) va dato atto di essersi inventata una nuova carriera di scrittrice che conta non pochi titoli; e di aver lavorato al personale diario di quegli anni per ricostruire l'avventura, poi sfociata in un matrimonio clandestino ma più che decennale, con il regista di À band apart nel modo seducente che il lettore può verificare nel libro tradotto dalle Edizioni e/oUn anno cruciale, appunto. 
Perché di una storia di seduzioni si tratta. Il film che tocca l'immaginazione – la curiosità forse più che il cuore, in partenza - della giovane ragazza, ancora impegnata con la scuola, è, guarda caso, Il maschio e la femmina. Non ancora del tutto equipaggiata rispetto alle discussioni teoriche e alle polemiche che segnano il cinema di Godard, è abbastanza sveglia però da intuirne il peso e la portata culturale  (“bisognava essere a favore o contro il suo cinema, ignorarlo era inconcepibile”). Siamo in clima pre-sessantottino; il cinema fa la sua parte. E allora tanto più stupisce vedere il cimento romantico del regista; il tono emotivo di fondo che pervade l'approccio di Godard il quale risponde entusiasta alla missiva inviata da Anne ai "Cahiers du cinéma" (non aveva il suo indirizzo privato) è intriso di unasensiblerie (molto acutamente descritta) che nella ragazza è ovvia, nell'uomo (che sul set mostra pienamente le attitudini al comando richieste dal suo mestiere) forse sorprende. 

La relazione è tutt'altro che facile. La ragazza è la nipote del Premio Nobel François Mauriac; lo scrittore e sua figlia guardano alla cosa con manifesta disapprovazione di cattolici perbenisti. Ma i due si sposano e nello stesso anno, il '67, girano insieme La cinese. In seguito, Wiazemsky reciterà fra gli altri anche con Pasolini e Marco Ferreri. Ma questa è biografia successiva. 

Prima, la giovane Anne vive il suo sogno d'amore che diventa interessante agli occhi del lettore perché sta scritto in una vicenda più ampia, che è la storia culturale di quegli anni. Che ha i suoi bravi contrasti, i suoi tratti controversi, romanzeschi, avventurosi. Quelli interni al carattere dei protagonisti (la gelosia, l'ossessività del regista, l'ira che esplodeva improvvisa, il suo bisogno di stupirla – persino, molto borghesemente con la sua Alfa Romeo dai sedili in pelle e nello stesso tempo legge alla bella Anne il Libretto Rosso di Mao) e quelli che coinvolgono il milieu artistico ma anche politico coevo. E gli amici famosi e la stampa a caccia di scandali. 

Anne sa raccontare. Lo fa in maniera pudica, mai morbosa ma compostamente appassionata. C'è vita dentro questo libro. Sembra un film.

9 apr 2013

La deriva dei continenti

Narratore vigoroso, Russell Banks, del quale arriva in Italia a quasi trent’anni dall’uscita negli Stati Uniti, La deriva dei continenti (Einaudi). L’America che racconta (fine anni Settanta) assomiglia molto non diremmo a quella attuale ma a una deriva di tutto l’Occidente nel quale al principio che tutto è merce non fanno eccezione nemmeno gli uomini.

E non tanto perché nella collisione di mondi (di continenti), succede, come qui, che americani senza scrupoli si arricchiscano con la disperazione di neri haitiani che fuggono dalla miseria, ma perché lo sfruttamento cinico puoi sentirlo addosso fra le pareti di famiglia – negli occhi di tuo fratello, per esempio. Così che un “brav’uomo” come il protagonista Bob Dubois, dopo aver a lungo resistito al demone interiore che gli insinuava il sospetto che la sua vita di riparatore di bruciatori di nafta nel New Hampshire e di marito e padre responsabile ma non privo di pecche e afflizioni, non fosse una gran vita, finisce per cedere e decide di cercare fortuna in Florida.

Una Florida che ha molto poco dell’immagine seduttiva che è ancora nella testa dei più. Lì difatti Bob dovrà misurarsi con una ferocia cui sarà difficilissimo far fronte. Vale per lui e vale per i disperati in arrivo da Haiti (la narrazione scorre doppia fra la vita di Bob e quella di una piccola famiglia di migranti) fino allo scontro, giusto il titolo, drammatico, fra disgraziati di mondi diversi, i poveri americani alla Dubois e i “clandestini” – che sono da decenni il rimossodelle nostre democrazie ormai vuote di significato (forse per questo risvolto sociale il romanzo era piaciuto persino alla terribile Michiko Kakutani, l’arcigna crtichessa del New York Times, riottosa agli entusiasmi).

Un grande personaggio, Dubois, onesto ma nella “sua rude stazza di maschio” abbastanza ambiguo e irrazionale nei comportamenti da essere umanamente – e perciò letterariamente - credibile. Di lui il narratore mostra azioni e riflessioni, in un continuo e onnisciente rimbalzo fra il dentro e il fuori – a volte, bisogna dire con il rischio di ingolfare. Banks è un massimalista che non tiene a bada la voracità affabulatoria che tende a fargli dire tutto – troppo. Spesso abbandona il racconto di una situazione ben precisa per fornire informazioni al lettore con digressioni che avrebbe potuto inserire con più agio altrove. E il tempo della storia e della lettura non coincidono (che in questi casi è un po’ la prova del nove).

Detto questo, la capacità di dare corpo e plastica evidenza agli ambienti, di costruire personaggi veri, è fuori discussione. Nonostante l’amore, gli inganni, il desiderio che circolano in abbondanza nel libro tra famiglie, mogli e amanti, la crudezza brutale di queste vite lascia nel lettore un’impressione forte, tale da dar ragione al narratore, che in nome di questa pietas, e attraverso il “sabotaggio e la sovversione” che ne possono derivare, spera che il romanzo se ne vada a “distruggere il mondo così com’è”.

pubblicata sul recensore.com

La Commedia: una rilettura

Tornare a fare il punto sulla Commedia di Dante. Questo il senso di un nuovo libro sull’opera per eccellenza della nostra letteratura. Lo ha scritto Alberto Casadei, studioso cinquantenne dell’Università di Pisa. Il titolo è  Dante oltre la Commedia, edito da il Mulino. Sia per meglio leggere il poema, sia per questioni che vanno “oltre la commedia” – giusto il titolo – Casadei rivede difatti con precisione scrupolosa anche L’Epistola a Cangrande, l’Epistola di Ilaro e la Monarchia.

Ridiscute la serie di interpretazioni di lunga e nota consuetudine, specie nell’ambito novecentesco, si tratti di Auerbach o Singleton o Contini o Eliot. Cercando di aggiustare il tiro, tenendo a vista l’imprescindibile filologia (lingua e storia) per farne la base di una più sicura lettura: sollecita nel distinguere i dati indiscutibili dalla concrezione di commenti depositati in una storia troppo lunga per non essere anche pigramente abitudinaria.

A partire dalla parziale rivisitazione della centralità del “comico”. Nozione certo non eludibile, ma ad avviso dell’autore impossibilitata a esaurire e comprendere la tonalità “sacra” del poema; ostacolo che impedisce di intendere la dimensione divina dell’ispirazione dantesca (vale soprattutto per il Paradiso, ovviamente). Per capirsi, Casadei ricorda come Dante richiami per la scrittura della sua opera il segno di un “dono” dello Spirito Santo: come di una rivelazione che pretende il sigillo della verità. In questo modo, ci si allontana dalla vulgata espressionista (che presa alla lettera non darebbe ragione della tendenza all’ordine cui mira l’opera nel suo processo ascensionale). Tutto questo, anche senza mettere in secondo piano la strumentazione “realistica” in dote al poeta fiorentino. Intesa come cognizione lucida dei materiali conoscitivi a disposizione dell’autore – meglio, della sua epoca. Dei quali Dante si serve per configurare l’immensa scena oltremondana con quella precisione figurativa e dovizia di dettagli che gli accaniti esegeti dell’opera (ma anche i buoni lettori liceali di un tempo) ben conoscono.

La Comedìa va intesa dunque come opposizione alla tragedia di cui è espressione agli occhi di Dante, l’Eneide virgiliana, mondata degli aspetti più bassi intrinseci al dettato dell’Inferno. Che non conclude e dà fondo al poema – questo rimprovera Casadei ad alcuni esegeti: si tratta pur sempre del “poema sacro”, che, a differenza dell’opera di Virgilio,non può fare a meno nella prima cantica di “rappresentare ogni tipo di infamia e malvagità”. “La genialità dell’operazione dantesca – scrive Casadei – sta fra le altre cose nell’aver accettato in profondità i fondamenti del sapere archeologico medievale (…) e nello stesso tempo di aver dato spazio a ogni tipo di possibile verifica di questi presupposti, a livello di osservazione dei dati naturalistici e di quelli antropologici”.

pubblicata sul http://www.ilrecensore.com/wp2/2013/03/dante-oltre-la-commedia/recensore.com

I cattivi soggetti di Renzo Paris



Magari per i più è probabilmente sensato ritenere che dai Sessanta in poi ci siamo pian piano avvicinati alla catastrofe – presente. Considerazione che se vale per tutto l’Occidente, suonerebbe a maggior ragione plausibile per l’Italia. Eppure, se con Cattivi Soggetti, un libro del 1988 ora ripubblicato da Iacobelli, in cui Renzo Paris rievoca momenti, personaggi, storie del ’68 e degli anni immediatamente successivi, egli non dà l’impressione di andare controcorrente rispetto alla vulgata, è fuori di dubbio che la prima parte, stretta attorno a quell’anno fatale, appare piena di figure che, stando al suo racconto, avresti poca voglia di incontrare.

Vero che un titolo del genere te lo immagini volutamente antifrastico. Per un attimo ho pensato di domandarglielo, all’autore, se fosse questa la sua intenzione. Poi mi son detto che preferivo stare al testo. Alle impressioni, all’umore di fondo (e nessuna pretesa oggettiva: occorrerebbe una verifica più approfondita, in un testo fatto anche di minuzie descrittive e umori sottili). Concludendone che per lo più, al netto del garbo che al narratore non fa quasi mai difetto, questi soggetti se non cattivi certamente non ti fanno vibrare dall’emozione. Intellettuali, amici (amici intellettuali) amori con i quali lo scrittore pervenuto a Roma da un paesino dell’Abruzzo fa un pezzo di vita insieme negli anni topici della “contestazione” – spesso senza l’agio che ti aspetteresti a dire il vero. Si tratti di Goffredo Fofi (per il quale l’unica letteratura possibile all’epoca era il volantino) o di Nanni Balestrini (dopo alterne vicende, e frequentazioni non immuni da stridori “politici”, l’autore finisce per non salutarsi nemmeno durante un incontro casuale in libreria); o di Franco Fortini, afflitto da “un rodimento oscuro”. Figure di militanti irrigiditi nelle loro certezze un po’ stolide, alteri di una spocchia abbastanza irragionevole. Umanamente non proprio meravigliosi (Asor Rosa almeno sembra oscillare dall’ideologia al riconoscimento di un’autonomia del testo letterario che in quel momento in certi ambienti equivaleva a una bestemmia).

Sorte migliore pare quella capitata a Rossana Rossanda, verso la quale il giovane scrittore palesa un’amabile soggezione, o alla Morante. E ancora più ad Amelia Rosselli la cui voce, scrive Paris, gli “andava per le ossa come un farmaco esplosivo”.



Poi ha ben ragione di scrivere e lamentare nel 1988 che no, “non siamo tutti dei riconciliati”, che non è vero “che esiste soltanto il mercato mondiale”. “Cari post-tutto (…) perché parlare di pentitismo soltanto per i carcerati che vogliono uscire?”.

Insomma, anni sciagurati i successivi a quello fatale (che in realtà era una fine), ma l’astratta, caricaturale rigidezza doveva essere di troppi. Tanto che lo stesso Paris, un “cane sciolto”, da qualche parte definisce il proprio memoir “un’uscita di sicurezza, ironica, dall’immaginario politico di tutta una generazione”. L’osservatore giovane e sensibile, troppo “letterato” per essere al tutto ideologizzato, in questa vita intensa di incontri, pare tenersi spesso sulle sue, un po’ scettico ma abbastanza sentimentale. Non so quanto dipenda da una strategia stilistica (sarebbe conforme al tipo di racconto: l’io narrante un po’ goffo, in disparte, per far emergere i personaggi) quanto da una limpida “verità” biografica; vero però che il narratore è spesso lì, dove le cose accadono. E fa la sua parte. Anche negli anni successivi. Compreso il celebre – o famigerato – festival dei poeti a Castelporziano. Con tutta la gazzarra della “nuova società dello spettacolo”.

Capitolo dopo capitolo, l’attenzione al dettaglio non impedisce al giovane scrittore di guardare l’intero. Vale per Angelo Guglielmi (“sospettoso, attaccante sulla difensiva”), per Bifo (incontrato a più riprese, esagitato per struttura costituzionale senza che gli anni sembrino intaccarlo minimamente), per il garrulo Arbasino come per Nanni Moretti (del quale Paris sottolinea la giovanile insistenza nel voler fare l’attore: e sarebbe stato un bene se si fosse limitato a quello). Se spesso le donne sembrano meglio degli uomini, non vale quando si tratta di gruppi più o meno anonimi di femministe chiassose. Riunioni grottesche (in casa propria, ma come succedeva ai poveri maschi di allora, Paris ne era tenuto ai margini) di donne così gravide di una storia secolare repressiva che non sapevano fare a meno della ridicola convinzione che ogni male avesse a che fare con il “padre”. E ancora, fra Sessanta e Settanta, marcusiani contro marxisti, sedute di autocoscienza indiziarie dello sbandamento successivo, e maoisti duri e puri. Ma alla fine ciò che resta, anche dei decenni successivi, sta fra le pieghe del racconto; nella descrizione degli ambienti, per esempio di alcuni quartieri romani, dell’aria che tirava in certi pomeriggi grigi o nelle esplosioni di sole e di vitalità improvvise (ma ci sono anche l’India, New York, Londra). E nel modo in cui questo scorrere del tempo s’impasta alla vita dei personaggi. E le loro piccole vite si confondono con la Storia. Questo è quello che a Paris riesce meglio. L’essenziale, forse.



La presente edizione contiene anche materiale nuovo: alcuni versi inediti di Pasolini e una lettera non esaltante del giovane Moravia che chiede a Galeazzo Ciano di partecipare all’aggressione africana per comporne un libro.

3 apr 2013

Il ruggito del Leone (Hollywood alla conquista dell’impero dei sogni nell’Italia di Mussolini)


Totalitarismo imperfetto, si è detto spesso a proposito del fascismo, non solo per evidenziarne crepe o faglie interne all’ideologia in sé (nella sua elementare rozzezza, una visione del mondo con i suoi paradigmi sistematici non più contraddittori di altri), ma per registrarne empiricamente le zone di controllo più lasche, quelle che fino alla prima metà degli anni Trenta aprirono temporanee vie di fuga probabilmente sconosciute al nazismo e allo stalinismo. Il caso del cinema, per esempio: del cinema americano. Prima della classica “fabbrica del consenso” mussoliniana, agisce l’industria hollywoodiana. Miti e sogni che sono l’oggetto di indagine del libro di Gian Piero Brunetta (l’editore è Marsilio), “Il ruggito del Leone - Hollywood alla conquista dell’impero dei sogni nell’Italia di Mussolini”; che si sofferma soprattutto sulle strategie pubblicitarie che permisero alle majors (non solo la Metro Goldwyn Mayer) di invadere il mercato italiano dagli anni Venti.
Esse seppero approfittare delle condizioni provocate dalla Grande Guerra e delle difficoltà socio-economiche dell’Italia coeva. Dunque, dell’assenza di un’industria cinematografica. E di una ricettività evidentemente ben disposta verso le tipologie di racconto proposte con l’ausilio di una molto accorta e poderosa strumentazione commerciale. La macchina era ovviamente molto ben organizzata – non senza tratti coercitivi, peraltro: si pensi al sistema del block-booking attraverso il quale l’esercente era obbligato ad accollarsi pacchetti di film di dubbia riuscita (e qualità) assieme al titolo di sicuro successo. 
La questione più interessante a nostro avviso (seppure non fosse questa l’intenzione dello studioso) è il tema della conciliabilità fra un immaginario d’importazione e uno autoctono, imposto – non sarebbe il caso di dimenticarlo – con la forza da Mussolini. Se qui non funziona la classica contraddizione fra gli ovvi privilegi del potere che si concede in privato quello che vieta in pubblico (il duce si godeva i suoi film americani nella sala privata di villa Torlonia), sarebbe da approfondire il tema della frizione interna al regime fra l’american way of life e un certo antiamericanismo che al fascismo non ha mai fatto difetto. Vero che, non casualmente, nel momento in cui esso si accentuava sul piano politico-culturale (di pari passo all’antisemitismo che non può ridursi a una mera contingenza politica obbligata dai rapporti col nazismo e confluita nelle Leggi razziali del ’38), le maglie del mercato cinematografico statunitense in Italia si strinsero drammaticamente.
Vero altresì che se il regime per più di un decennio aveva abbondantemente lasciato fare, ossia permesso che il pubblico si crogiolasse dentro onirici pomeriggi hollywoodiani, ciò accadde in virtù degli specifici tratti “poetici” di quella cinematografia: il cui scopo fondamentale – perciò stesso apprezzato da gerarchi come Bottai – era l’intrattenimento. Per lo più, la proiezione di un film americano costituiva una piacevole sospensione dalla militarizzazione ideologica quotidiana, possibile perché percepita dai più come innocua, evasiva ma non certo critica rispetto al tentativo politico di costruire una propria mitologia: quella della Tradizione. Un immaginario non particolarmente pericoloso, dunque, strutturalmente “popolare” come ricordava Alberto Savinio contrapponendolo a quello degli intellettuali.
Brunetta ha buon gioco nel sottolineare come la sala cinematografica cullasse lo spettatore dell’epoca in una bolla di piacere grazie a un racconto filmico fatto di ricerca del benessere, di individualismo edonistico (contrastante assai con la retorica del regime, occorre dire, non con una inclinazione storica dell’homo italicus che nei fatti il regime stesso non seppe né volle osteggiare davvero), abbastanza innocente, di gioia di vivere e passioni amorose a lieto fine. Una via di fuga, anche, dalle pressioni politiche.
Non casualmente l’autore ricorda come il cinema europeo più avantgarde fosse viceversa temutissimo e ostracizzato dal regime. Dal canto suo, in un libro recente (Il volo del cinema) di Raffaele De Berti si individuava nelle sperimentazioni futuriste il côté modernista del fascismo. Esso poteva convivere con la propaganda dei cinegiornali e lo sbarco di divi e storie d’amore e di libertà che venivano da Los Angeles, col loro corredo pubblicitario di riviste illustrate e rotocalchi che rafforzavano l’interesse e la partecipazione del pubblico (l’analisi di Brunetta al riguardo è molto documentata e il testo si avvale di belle fotografie d’epoca, brochures, locandine, francobolli coi volti dei divi). Se pizzicagnoli e parrucchieri sognavano di assomigliare a Robert Montgomery, ancor più numerosi erano coloro che speravano prima o poi di incrociare sulla loro strada Greta Garbo. Che americana non era, ma il dettaglio ai loro occhi doveva risultare davvero trascurabile. L’aura funzionava a meraviglia.



22 mar 2013


gadda certosaCon Verso la Certosa prosegue la pubblicazione adelphiana dell’opus di Carlo Emilio Gadda. Scrittura saggistica nello specifico e persino d’occasione, vuol dirsi minore senza tentennamenti, per lettori appassionati e adusi e curiosi del genio lombardo. Che possono scoprire cosa vuol dire un vero risotto alla milanese, e in quanto lettori benintenzionati – come capita con i grandi che si amano – crederci sulla parola.
Del resto, oggi v’è chi con le ricette aspira a scrivere romanzi che pretende financo di qualità approfittando dello stato confusionale in cui lo Spettacolo getta chiunque e qualsiasi cosa; per cui si scambia il pastiche dello stile (letterario, artistico) con ilrecital delle occasioni: un romanz(ett)o, una serata di degustazioni vini e formaggi, un concertino di malnati, tutto nella stessa scena ricreativa (e magari non vendono lo stesso: col che, la compassione è d’uopo).
Un grande scrittore che invece il pastiche sa cos’è (e lo pratica a un livello altissimo), nondimeno sa distinguere l’opera (benché mai finita, strutturalmente impossibilitata a concludere) dal mero intervento  mondano, dalla cronaca capricciosa o dalla nota paesistico-sociale. Naturalmente, Gadda è Gadda: nella pagina non manca mai né l’invenzione linguistica né la percezione sulfurea dell’immancabile stupidità dei propri simili.
Intanto ti appresti ad azzardare la cottura di un “buon risotto alla milanese” lievemente intimorito dalle ammonizioni del maestro; ti avverte che abbisogni di una “casseruola rotonda, e la ovale pure, di rame stagnato, con manico di ferro; la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie;”: che dopo “l’apporto butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo appetito prevedibile degli attavolati”; e che i “chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria personalità: non impastarsi e neppure aggrumarsi”.
Queste prose sparse, pubblicate per la prima volta in pochi esemplari nel 1961 dall’editore Riccardo Ricciardi, e ora riviste grazie alla cura di Liliana Orlando, consentono all’affezionato lettore di seguire Gadda alla Fiera di Milano, notare con lui la folla “agglutinarsi sì ma in un impasto dei più ragionevoli: serena, educata” (siamo negli anni Trenta…). O per mercati in cui vendono “turaccioli, grattugie usate, pipe con via il bocchino (…) ché tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità”. Col suo “abituale malumore” capace di cancellare quello eventuale del lettore, Gadda ci porta anche fuori dai confini milanesi, nella pianura lombarda, nelle risaie delle mondine, in Versilia, per poi rientrare, in ideale benché controverso e mai pacificato ritorno, in terra milanese: sulle orme di Petrarca, che vi trascorse qualche anno, e “verso la Certosa” che adombra il destino che attende tutti noi.

9 mar 2013

Henry Miller



Non è dai discorsi astratti, dalle teorie o dalle opinioni sui massimi sistemi che si giudica uno scrittore (o almeno, un narratore): di quelli che amiamo o riteniamo grandi ne rimarrebbero pochi. Specie se si tratta di ragionamenti o prese di posizione “politiche”. Tuttavia, dovremmo riconoscere che idee in sé e per sé strampalate o persino pericolose (ai nostri occhi) possono magari essere fruttuose per la pronuncia artistica di un narratore che peraltro amiamo (per converso capita di incontrare scrittori politicamente più compatibili con le nostre traballanti convinzioni ma deboli sulla sola cosa che conta – la scrittura, appunto: per me è quasi una regola). Certa benvenuta, attraente radicalità esistenziale dei grandi romanzi di Henry Miller, l’inquietudine - vitale, ludicamente erotica più che depressiva - di certi personaggi è scavata nell’humus fertile di una radicalità “politica” in virtù della quale gli era possibile non trovare molta differenza fra la dittatura guerrafondaia nazifascista e la risposta angloamericana (e cristiana). Ingenuità o posa, enfasi apocalittica sulla “verità” o umore derivato da una resa dei conti personale con l’ambiente nativo, l’oltranza che accettiamo nei romanzi di Miller (o in qualsiasi altro: non per mera effrazione liberatoria, catartica di un io-noi oppressivo ma perché sappiamo che è del romanzo una natura esplorativa, una ricerca sul possibile da contrapporre alle nostre stolide certezze) la guardiamo con perplessità (e persino con orrore) quando volesse proporsi come ragionamento (e magari azione, scelta concreta) sul “che fare”.
Così nella lettera all’amico Alfred Perlès conosciuta come “Assassinate l’assassino” (1941) se da un lato non sembra privo di ragioni l’attacco di Miller alla ipocrita cultura occidentale che prepara la guerra in tempi di pace, e lo smascheramento della violenza insito nella potenza di un paese come gli Usa, lascia più freddi l’idea complessiva che “assassinare gli assassini”, dunque contrastare l’orrore nazista come fecero i suoi nemici senza “avere mani pulite e un cuore puro”, fosse una soluzione da condannare. Sottomettere le ragioni di un male minore – se tale era - in un caso come quello dell’impareggiabile delirio nazista, alla “coscienza individuale” (la sola autorità che Miller dice di riconoscere) appare un proponimento verso il quale un lettore sufficientemente attrezzato contro certa mistica non priva di tratti estetizzanti non può non restare freddino. Dire di non trovare Hitler o Mussolini peggiori di Churchill o Roosvelt è qualcosa che potremmo – in un certo senso - comprendere ma non accettare. Tuttavia, lo stesso lettore deve riconoscere che la paternità anarcoide di questo atteggiamento presiede anche ai romanzi del grande scrittore americano. Ne costituisce certa matrice “ideologica” (e psicologica). Non liquidabile facilmente; non solo perché è vero che mentre prepara la guerra contro il male assoluto in nome di una pace futura che per Miller è “la pace della tomba” l’America non smette di fare affari (di chiedersi per esempio se i profughi che stanno arrivando dall’Inghilterra abbiano quattrini). Ma perché è quella libertà (persino scandalosa) di visione che sta alla base della sua arte (la biografia interessandoci caso mai per vie laterali ma mai decisive). Resta il discutibile esercizio di confondere una molto imperfetta, e classista, e razzista democrazia con un sistema totalitario assoluto che esclude l’esistenza dell’altro da sé se non come schiavo.
Questo esempio di “autobiografia di idee” (definizione del prefatore Alfonso Berardinelli) pubblicata da minimum fax è in realtà un dittico, il cui titolo “Ricordati di ricordare” riprende quello del secondo scritto, di qualche anno successivo al primo, una rivisitazione degli anni parigini dello scrittore americano, il vagabondo erotomane legato alla cultura francese e a quella europea che ne riconobbe il talento molto prima dei suoi connazionali. Sempliciotti ignari del “cafard”, quella particolare “apatia dell’anacoreta”, quel senso di vuoto che deriva dalla paradossale consapevolezza delle “illimitate possibilità” offerte da una città come Parigi – roba troppo sofisticata per un americano. E questo, concesso che nessuno meglio di Miller conosceva il lato oscuro dell’american dream (venduto al mondo in maniera menzognera, ché a suo modo di vedere non aveva da fare né con la vera libertà né con la giustizia ma con la potenza della ricchezza – vale a paradigma la tragedia di Sacco e Vanzetti), probabilmente ebbe il suo peso anche nei contenuti della lettera all’amico Perlès. Al quale ricorda che certo, il nazismo non gli avrebbe consentito di scrivere i suoi libri, ma certo non è che il mondo editoriale americano, e all’inizio neppure quello francese gli avessero spalancato le porte. E gli scrittori, si sa, non perdonano chi non li ha amati.

2 mar 2013

La tela




Benjamin Stein è il nome dell’autore. Un ebreo tedesco nato negli anni Settanta a Berlino Est. Die Leinwand (La tela) il titolo del romanzo. Di questo strano doppio romanzo diviso in due anche nell’impaginazione, nella rilegatura e nella copertina, speculari, che può essere letto a piacimento, partendo da una parte o dall’altra, in modo che il finale, ammesso che di finale di possa parlare, coincida con l’incontrarsi delle due storie al centro – anche materiale – del volume. Date queste premesse e trattandosi di un libro che esplora il tema dell’identità, forse può essere interessante e non troppo casuale la scelta di ogni singolo lettore, se cominciare leggendo la storia di Amnon Zichroni, “ebreo osservante col dono di rivivere i ricordi degli altri”, oppure partire con la versione di Jan Wechsler, personaggio chiave del romanzo che appare verso il finale dell’altra parte. 
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Lo scrivente dopo essersi rigirato il libro fra le mani diverse volte, ha optato infine per il primo solo perché nell’incipit compare la prima persona singolare (con ciò confermando una riprovevole attitudine individualistica). Se la “tela” del titolo risulta pertanto obbligata, il dittico è unitario. Ciò che ne complica l’opera è piuttosto l’iperfetazione di frammenti in parte ispirati alla vicenda di Binjamin Wilkomirski (pseudonimo di un musicista svizzero, Bruno Dössekker) che nel 1995 divenne praticamente una star pubblicando un libro di memorie, scopertosi poi un falso, su Auschwitz. Così come accade nel romanzo di Stein: Amnon Zichroni, a Zurigo incontra il liutaio Minsky, lo sprona a mettere per iscritto i suoi ricordi su un campo di sterminio; ne verrà fuori un libro di grande impatto sul pubblico, salvo per gli attacchi del giornalista Jan Wechsler che lo ritiene una bufala.Il triangolo identità-verità-memoria non è complicato soltanto dall’accusa rivolta a Amnon di aver manipolato l’immaginazione del suo amico, di averlo indotto a raccontar fole attraverso l’ipnosi, ma dall’altro lato della cerniera, quello tessuto dalla voce narrante che porta il nome di Jan Wechsler. Editore (e autore fragilissimo), dal momento in cui gli viene recapitata una strana valigia che avrebbe smarrito (a lui non risulta) è costretto a farsi inquietanti e destabilizzanti domande su se stesso. Sulla possibilità che vi sia un in giro un omonimo, la cui vita ha a che fare con i libri, come la sua. O sull’eventualità che qualcuno gli abbia rubato in qualche modo l’identità (con la sua memoria). O forse no. Perché se “sono i nostri ricordi a fare di noi ciò che siamo” e la loro tessitura si sfilaccia, s’ingarbuglia, si scompiglia, ne va della nostra stessa vita. Per questo Wechsler ha bisogno di provare a se stesso, e ai suoi familiari, chi egli sia davvero (e cosa abbia fatto in passato). Non è un caso che sulla scena ritorni Amnon, lo psicoanalista dalle strane “esoteriche” virtù. Una testimonianza, La tela, della duttilità del genere romanzo, delle sue possibilità, di come e quanto sia ancora il modo più ricco per parlare dagli uomini agli uomini. Che in sostanza vuol dire disegnargli una mappatura del pensabile, aggiungere elementi di conoscenza al suo disorientamento, anche se a farlo – paradosso che solo l’arte conosce – è un individuo la cui biografia, come nel caso di Bernjamin Stein, parrebbe quella di un ebreo ortodosso e osservante della Legge (in teoria, con qualche certezza in più di noi). Invece non è un caso che Die Zeit lo abbia definito “il punk fra gli ortodossi”. Che come definizione non è niente male: la letteratura è complicata non molto di più della nostra vita. Sta solo lì a ricordarcelo.

20 feb 2013

Sherwood Anderson

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Dopo Winesburg, Ohio, venne Il trionfo dell’uovo. Ma in Italia arriva con novant’anni di ritardo. Sherwood Anderson (1876-1941) dopo anni di oblio negli ultimi tempi sta conoscendo da noi una nuova piccola, meritata fortuna. Questi quindici racconti li traduce per Piano B Edizioni Daniele Suardi. Ne cura anche l’introduzione. A proposito della quale direi subito che se si vuole accreditare la categoria del grottesco come peculiare della narrativa dello scrittore americano (padre spirituale almeno di Hemingway e Faulkner) bisogna precisare che non sarebbe un grottesco da esibizione, da circo delle stranezze, da Barnum delle affezioni fisiche. Piuttosto, la diremmo una curiosa dismisura sottotono, silenziosa, raccolta in un segreto privato, personale – di vite apparentemente banali, che però della normalità conservano innanzitutto l’indicibile che si nasconde dietro le apparenze. Un cuore inconfessabile. 

Potrebbe non essere per niente inverosimile per esempio che per amare una donna al punto di sceglierla come moglie tu debba passare per un incontro clandestino con un’altra, una sconosciuta, per una sola sera, magari la sera prima di sposarti. Lo scarto fuori norma ma non troppo raccontato ne L’altra donna, uno dei quindici racconti della raccolta, è esemplare di queste vite – che siano americane mi pare a tratti secondario a fronte del fatto che sono prima di tutto storie di provincia anche quando raggiungono le metropoli. Vite diffratte rispetto alle fragili identità che ne sono portatrici. Come ci fosse sottesa l’ipostasi di una vita più vera, occultata nella menzogna. Va da sé che narrare tutto ciò è il destino, o la vocazione, di una letteratura che non si voglia di puro arredamento. Lo sapeva lo stesso Anderson, che ne Il muto, primo brevissimo racconto della raccolta, mostra come l’assenza di quel talento (che è poi immaginare a partire da una serie di dati) renda vana qualsiasi costellazione di ambienti e personaggi. L’estraneità letale dalla vita se non nella forma suicidale di un matrimonio tutt’altro che convinto è ancora nel tedio del professore, marito e padre impalpabile, de La porta della trappola. O nello storico de L’uomo con il cappotto marrone, ennesimo coniuge sgomento per la constatazione irrimediabile che il rapporto con la moglie è fondato su una radicale incomprensione: solo il portato più evidente di una congenita difficoltà a comunicare con il prossimo, a dispetto delle sue doti professionali. Per nulla estraneo a tutto questo – all’iniqua virtù di tormentato e tutt’altro che retorico uomo di lettere – è peraltro il nucleo biografico dell’autore. Diversi fra i personaggi che si aggirano ne Il trionfo dell’uovo toccano tangenzialmente un punto cruciale dell’esistenza stessa dell’autore: l’Anderson che a un certo punto della sua vita, in seguito a un crollo psichico, realizza che la sola verità possibile, per uno come lui, è quella della scrittura. Lascia moglie e quattro figli e diventa lo scrittore (certo, meno grande di altri statunitensi venuti dopo di lui) che sappiamo.Questa distanza fra i personaggi e se stessi, come se fossero fuori luogo ovunque, fuori centro, non riguarda solo figure di uomini colti. E se in Europa in quegli anni in fondo si raccontavano storie simili, vite in cui il pronome “io” si andava frantumando alla stessa velocità, una connotazione più palesemente geografica, socialmente determinata, l’ombra nera del sogno americano insomma appare più evidente in certi scossoni ammortizzati alla meno peggio da personaggi meno attrezzati dei primi. Sono sconfitte, ferite insanabili che si producono nel passaggio fra un’esistenza contadina e la modernità – una modernità seguita più per sentito dire che per convinzione. Nel racconto L’uovo, è manifesto persino didascalicamente quanto il lascito di quella utopia sia piena di effetti collaterali. A sentire il narratore, suo padre fino a un certo punto “era stato abbastanza felice della sua posizione nel mondo”; ma – allude ai genitori – “a quei due poi successe qualcosa. Divennero ambiziosi. La passione americana per l’ascesa sociale s’impossessò di loro”. La donna convince l’uomo ad “abbandonare il suo lavoro di bracciante”. E a tentare la fortuna con un “allevamento di polli” prima, un ristorante poi. L’esito non sarà quello sperato. Col deserto che si scava in queste vite la grande narrativa americana a seguire sarà costretta a fare i conti.


pubblicata su alibionline.it

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