22 mar 2013


gadda certosaCon Verso la Certosa prosegue la pubblicazione adelphiana dell’opus di Carlo Emilio Gadda. Scrittura saggistica nello specifico e persino d’occasione, vuol dirsi minore senza tentennamenti, per lettori appassionati e adusi e curiosi del genio lombardo. Che possono scoprire cosa vuol dire un vero risotto alla milanese, e in quanto lettori benintenzionati – come capita con i grandi che si amano – crederci sulla parola.
Del resto, oggi v’è chi con le ricette aspira a scrivere romanzi che pretende financo di qualità approfittando dello stato confusionale in cui lo Spettacolo getta chiunque e qualsiasi cosa; per cui si scambia il pastiche dello stile (letterario, artistico) con ilrecital delle occasioni: un romanz(ett)o, una serata di degustazioni vini e formaggi, un concertino di malnati, tutto nella stessa scena ricreativa (e magari non vendono lo stesso: col che, la compassione è d’uopo).
Un grande scrittore che invece il pastiche sa cos’è (e lo pratica a un livello altissimo), nondimeno sa distinguere l’opera (benché mai finita, strutturalmente impossibilitata a concludere) dal mero intervento  mondano, dalla cronaca capricciosa o dalla nota paesistico-sociale. Naturalmente, Gadda è Gadda: nella pagina non manca mai né l’invenzione linguistica né la percezione sulfurea dell’immancabile stupidità dei propri simili.
Intanto ti appresti ad azzardare la cottura di un “buon risotto alla milanese” lievemente intimorito dalle ammonizioni del maestro; ti avverte che abbisogni di una “casseruola rotonda, e la ovale pure, di rame stagnato, con manico di ferro; la vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie;”: che dopo “l’apporto butirroso-cipollino, per piccoli reiterati versamenti sarà buttato il riso: a poco a poco, fino a raggiungere un totale di due tre pugni a persona, secondo appetito prevedibile degli attavolati”; e che i “chicchi dovranno pertanto rosolarsi e a momenti indurarsi contro il fondo stagnato, ardente, in codesta fase del rituale, mantenendo ognuno la propria personalità: non impastarsi e neppure aggrumarsi”.
Queste prose sparse, pubblicate per la prima volta in pochi esemplari nel 1961 dall’editore Riccardo Ricciardi, e ora riviste grazie alla cura di Liliana Orlando, consentono all’affezionato lettore di seguire Gadda alla Fiera di Milano, notare con lui la folla “agglutinarsi sì ma in un impasto dei più ragionevoli: serena, educata” (siamo negli anni Trenta…). O per mercati in cui vendono “turaccioli, grattugie usate, pipe con via il bocchino (…) ché tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità”. Col suo “abituale malumore” capace di cancellare quello eventuale del lettore, Gadda ci porta anche fuori dai confini milanesi, nella pianura lombarda, nelle risaie delle mondine, in Versilia, per poi rientrare, in ideale benché controverso e mai pacificato ritorno, in terra milanese: sulle orme di Petrarca, che vi trascorse qualche anno, e “verso la Certosa” che adombra il destino che attende tutti noi.

9 mar 2013

Henry Miller



Non è dai discorsi astratti, dalle teorie o dalle opinioni sui massimi sistemi che si giudica uno scrittore (o almeno, un narratore): di quelli che amiamo o riteniamo grandi ne rimarrebbero pochi. Specie se si tratta di ragionamenti o prese di posizione “politiche”. Tuttavia, dovremmo riconoscere che idee in sé e per sé strampalate o persino pericolose (ai nostri occhi) possono magari essere fruttuose per la pronuncia artistica di un narratore che peraltro amiamo (per converso capita di incontrare scrittori politicamente più compatibili con le nostre traballanti convinzioni ma deboli sulla sola cosa che conta – la scrittura, appunto: per me è quasi una regola). Certa benvenuta, attraente radicalità esistenziale dei grandi romanzi di Henry Miller, l’inquietudine - vitale, ludicamente erotica più che depressiva - di certi personaggi è scavata nell’humus fertile di una radicalità “politica” in virtù della quale gli era possibile non trovare molta differenza fra la dittatura guerrafondaia nazifascista e la risposta angloamericana (e cristiana). Ingenuità o posa, enfasi apocalittica sulla “verità” o umore derivato da una resa dei conti personale con l’ambiente nativo, l’oltranza che accettiamo nei romanzi di Miller (o in qualsiasi altro: non per mera effrazione liberatoria, catartica di un io-noi oppressivo ma perché sappiamo che è del romanzo una natura esplorativa, una ricerca sul possibile da contrapporre alle nostre stolide certezze) la guardiamo con perplessità (e persino con orrore) quando volesse proporsi come ragionamento (e magari azione, scelta concreta) sul “che fare”.
Così nella lettera all’amico Alfred Perlès conosciuta come “Assassinate l’assassino” (1941) se da un lato non sembra privo di ragioni l’attacco di Miller alla ipocrita cultura occidentale che prepara la guerra in tempi di pace, e lo smascheramento della violenza insito nella potenza di un paese come gli Usa, lascia più freddi l’idea complessiva che “assassinare gli assassini”, dunque contrastare l’orrore nazista come fecero i suoi nemici senza “avere mani pulite e un cuore puro”, fosse una soluzione da condannare. Sottomettere le ragioni di un male minore – se tale era - in un caso come quello dell’impareggiabile delirio nazista, alla “coscienza individuale” (la sola autorità che Miller dice di riconoscere) appare un proponimento verso il quale un lettore sufficientemente attrezzato contro certa mistica non priva di tratti estetizzanti non può non restare freddino. Dire di non trovare Hitler o Mussolini peggiori di Churchill o Roosvelt è qualcosa che potremmo – in un certo senso - comprendere ma non accettare. Tuttavia, lo stesso lettore deve riconoscere che la paternità anarcoide di questo atteggiamento presiede anche ai romanzi del grande scrittore americano. Ne costituisce certa matrice “ideologica” (e psicologica). Non liquidabile facilmente; non solo perché è vero che mentre prepara la guerra contro il male assoluto in nome di una pace futura che per Miller è “la pace della tomba” l’America non smette di fare affari (di chiedersi per esempio se i profughi che stanno arrivando dall’Inghilterra abbiano quattrini). Ma perché è quella libertà (persino scandalosa) di visione che sta alla base della sua arte (la biografia interessandoci caso mai per vie laterali ma mai decisive). Resta il discutibile esercizio di confondere una molto imperfetta, e classista, e razzista democrazia con un sistema totalitario assoluto che esclude l’esistenza dell’altro da sé se non come schiavo.
Questo esempio di “autobiografia di idee” (definizione del prefatore Alfonso Berardinelli) pubblicata da minimum fax è in realtà un dittico, il cui titolo “Ricordati di ricordare” riprende quello del secondo scritto, di qualche anno successivo al primo, una rivisitazione degli anni parigini dello scrittore americano, il vagabondo erotomane legato alla cultura francese e a quella europea che ne riconobbe il talento molto prima dei suoi connazionali. Sempliciotti ignari del “cafard”, quella particolare “apatia dell’anacoreta”, quel senso di vuoto che deriva dalla paradossale consapevolezza delle “illimitate possibilità” offerte da una città come Parigi – roba troppo sofisticata per un americano. E questo, concesso che nessuno meglio di Miller conosceva il lato oscuro dell’american dream (venduto al mondo in maniera menzognera, ché a suo modo di vedere non aveva da fare né con la vera libertà né con la giustizia ma con la potenza della ricchezza – vale a paradigma la tragedia di Sacco e Vanzetti), probabilmente ebbe il suo peso anche nei contenuti della lettera all’amico Perlès. Al quale ricorda che certo, il nazismo non gli avrebbe consentito di scrivere i suoi libri, ma certo non è che il mondo editoriale americano, e all’inizio neppure quello francese gli avessero spalancato le porte. E gli scrittori, si sa, non perdonano chi non li ha amati.

2 mar 2013

La tela




Benjamin Stein è il nome dell’autore. Un ebreo tedesco nato negli anni Settanta a Berlino Est. Die Leinwand (La tela) il titolo del romanzo. Di questo strano doppio romanzo diviso in due anche nell’impaginazione, nella rilegatura e nella copertina, speculari, che può essere letto a piacimento, partendo da una parte o dall’altra, in modo che il finale, ammesso che di finale di possa parlare, coincida con l’incontrarsi delle due storie al centro – anche materiale – del volume. Date queste premesse e trattandosi di un libro che esplora il tema dell’identità, forse può essere interessante e non troppo casuale la scelta di ogni singolo lettore, se cominciare leggendo la storia di Amnon Zichroni, “ebreo osservante col dono di rivivere i ricordi degli altri”, oppure partire con la versione di Jan Wechsler, personaggio chiave del romanzo che appare verso il finale dell’altra parte. 
Tela_3
Lo scrivente dopo essersi rigirato il libro fra le mani diverse volte, ha optato infine per il primo solo perché nell’incipit compare la prima persona singolare (con ciò confermando una riprovevole attitudine individualistica). Se la “tela” del titolo risulta pertanto obbligata, il dittico è unitario. Ciò che ne complica l’opera è piuttosto l’iperfetazione di frammenti in parte ispirati alla vicenda di Binjamin Wilkomirski (pseudonimo di un musicista svizzero, Bruno Dössekker) che nel 1995 divenne praticamente una star pubblicando un libro di memorie, scopertosi poi un falso, su Auschwitz. Così come accade nel romanzo di Stein: Amnon Zichroni, a Zurigo incontra il liutaio Minsky, lo sprona a mettere per iscritto i suoi ricordi su un campo di sterminio; ne verrà fuori un libro di grande impatto sul pubblico, salvo per gli attacchi del giornalista Jan Wechsler che lo ritiene una bufala.Il triangolo identità-verità-memoria non è complicato soltanto dall’accusa rivolta a Amnon di aver manipolato l’immaginazione del suo amico, di averlo indotto a raccontar fole attraverso l’ipnosi, ma dall’altro lato della cerniera, quello tessuto dalla voce narrante che porta il nome di Jan Wechsler. Editore (e autore fragilissimo), dal momento in cui gli viene recapitata una strana valigia che avrebbe smarrito (a lui non risulta) è costretto a farsi inquietanti e destabilizzanti domande su se stesso. Sulla possibilità che vi sia un in giro un omonimo, la cui vita ha a che fare con i libri, come la sua. O sull’eventualità che qualcuno gli abbia rubato in qualche modo l’identità (con la sua memoria). O forse no. Perché se “sono i nostri ricordi a fare di noi ciò che siamo” e la loro tessitura si sfilaccia, s’ingarbuglia, si scompiglia, ne va della nostra stessa vita. Per questo Wechsler ha bisogno di provare a se stesso, e ai suoi familiari, chi egli sia davvero (e cosa abbia fatto in passato). Non è un caso che sulla scena ritorni Amnon, lo psicoanalista dalle strane “esoteriche” virtù. Una testimonianza, La tela, della duttilità del genere romanzo, delle sue possibilità, di come e quanto sia ancora il modo più ricco per parlare dagli uomini agli uomini. Che in sostanza vuol dire disegnargli una mappatura del pensabile, aggiungere elementi di conoscenza al suo disorientamento, anche se a farlo – paradosso che solo l’arte conosce – è un individuo la cui biografia, come nel caso di Bernjamin Stein, parrebbe quella di un ebreo ortodosso e osservante della Legge (in teoria, con qualche certezza in più di noi). Invece non è un caso che Die Zeit lo abbia definito “il punk fra gli ortodossi”. Che come definizione non è niente male: la letteratura è complicata non molto di più della nostra vita. Sta solo lì a ricordarcelo.

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