24 apr 2015

su satisfiction le vacche amiche di aldo busi

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VACCHE AMICHE, UN’AUTOBIOGRAFIA NON AUTORIZZATA

Recensione di Michele Lupo
Vacche amiche, un’autobiografia non autorizzata
“L’invidia è un sentimento segreto che trapela senza che tu lo possa manifestare apertamente, e non fa per me, mi sono voluto troppo estrovertito e diretto per covare sentimenti vergognosi: l’odio lo puoi manifestare, l’amore non del tutto, l’invidia te la devi tenere per intero”. Ecco, credo che un’invidia ovviamente inconfessata abbia avuto la sua parte nella generazione di scrittori tanto anagraficamente vicini quanto astiosi nei confronti di Aldo Busi, non a caso apertamente e giustamente considerato fra i maggiori dai narratori italiani più giovani. Un’invidia coriacea, ottundente, ché uno scrittore incapace in trent’anni di vedere la meraviglia del fraseggio busiano non si dà in natura: o scrittore a sua volta non è oppure qualcosa di poco commendevole gli impedisce di leggere con occhi limpidi nello splendore altrui – certo, si possono dare delle eccezioni: come altrimenti spiegare l’incapacità dello stesso Busi di comprendere la grandezza di Proust manco fosse Missiroli?
Poi Busi vi ha messo del suo con l’immarcescibile principio secondo il quale non ci sarebbe (mai stato) iato fra lo scrittore e l’uomo, la cui egolatria gli ha consentito di scambiare per folgorazioni di un santo, apparizioni televisive esasperanti (non si illuda: non perché superbe, accanto ad altre che invece lo sono state): si direbbe insomma che se li sia andati a cercare, l’invidia e il sospetto – ben prima dell’”autosputtanamento di massa” di cui ha parlato di recente.  Peraltro – va detto, e dato merito non da poco in un paese così lutulento in ogni suo piccolo affare – sottraendosi alle comunelle de amichetti de sinistra che hanno provato a tenersi in piedi sostenendo le reciproche ciofeche sempre inutilmente perbene tranne che nella scrittura. E lavorando come pochi, con l’acribia contadina del solo personaggio che lungo i suoi libri ha dimostrato di am(mir)are (quasi?) senza defezioni: sua madre;  costruendosi – fuori dai percorsi classici ma senza per questo sbracarsi nella faciloneria del genere “getta prim’ancora di usarlo”, una lingua da autodidatta mentre imparava (e traduceva da) l’inglese, il tedesco etc – e che lingua, la più stupefacente fra le italiane degli ultimi trent’anni. E dunque chi se ne frega se l’ostinata mitologizzazione di sé sia andata di pari passo con la grandezza della sua scrittura fino a quest’ultimo Vacche Amiche, pubblicato con Marsilio, se nemmeno l’ironia e anche certa inevitabile malinconia non impedisca la tentazione del santino quando hai davanti un libro in cui sai che non puoi saltare una pagina, non perché rischi di smarrire il filo della storia – della trama giustamente fregandogliene allo scrittore meno che andare a letto con una donna (e allo scrivente meno che andare a letto con un uomo) – ma perché rileggendolo anni dopo (ché un vero scrittore lo rileggi, un facitore di trame lo rinneghi subito dopo avergli dato un attimo del tuo tempo perso) pensi “guarda che m’ero perso” ossia una lunga frase che ti fa girare la testa prima per non averla compresa da subito e poi per averne inteso fin troppo bene la meraviglia di lingua e di immaginazione. Uno  uno scrittore che anche parlasse sempre di sé come sostengono i suoi detrattori, attraverso una foglia di platano o una gallina o un culo parlerà di te a te lettore come pochi hanno saputo fare da parecchio tempo a questa parte – ché poi, nemmeno questo è vero: andatevi a rileggere Vita standard di un venditore provvisorio di collant, strepitoso secondo romanzo e troverete in Celestino Lometto l’italiano più vero dell’ultimo quarto di secolo (ossia l’italiano tout court).
Il resto sarebbe quasi superfluo. In Vacche amiche tornano temi ricorrenti: l’essere uomini innanzitutto in una maniera che renda dignitosa la sopravvivenza della specie, l’aspirazione a una libertà che “non è una convinzione interiore e un ornamento mentale” ma invece “una lotta sociale dalle ferite inguardabili che non si chiudono mai (…), una disciplina durissima e un’esistenza marziale soprattutto in tempi di pace, poiché per essa la pace è sempre apparente, è un trucco perché si rammollisca”. Ancora, il discorso sulla sessualità che parta da una parresìa che pure in intellettuali che se ne dichiaravano fautori latitava (Foucault),  l’anticlericalismo indomito e in questa forma purtroppo raro nella cultura italiana, la quasi impossibilità di mantenere rapporti umani che possano definirsi amicali, affettivi e la sofferenza che ne è derivata (qui il patimento del narratore  deriva da tre donne destinate a deluderlo), la necessità della verità dell’uomo e dello scrittore (laddove l’amicizia purtroppo non riesce a fare a meno dell’ipocrisia)
E pure, il piacere del vivere, di assaporare ogni cosa del quotidiano, congiunto all’imperativo di un’etica civile – pagano vero che fuori tempo massimo ha l’ardire di dichiararsi “di sinistra”, Busi, in un paese di preti rossi e neri, ditemi voi.
Ah dimenticavo: il sottotitolo del libro è “un’autobiografia non autorizzata”. Se ha intenzione di inviare un killer, Busi, faccia presto.

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